Secondo quel monumento
della civiltà inglese che è il Dictionary
of National Biography, un giorno fu chiesto al filosofo
britannico Gilbert Ryle se mai si dilettasse con la lettura dei
romanzi. Il fiero oppositore del dualismo cartesiano, con nettezza
ebbe a rispondere: «certo che li leggo: tutti e sei, ogni anno».
Nel ridurre il canone romanzesco a un numero ben preciso e per giunta
così ristretto di opere, Ryle faceva obliquamente riferimento alla
produzione di una sola scrittrice, Jane Austen, più di altri maestra
di dualismi.
Della Austen non sappiamo
troppo in termini biografici, eppure si ha spesso l’impressione di
saperne abbastanza. Il che è forse dovuto a quel profumo «familiare»
che emanano le sue opere, sempre iscritte in circuiti estremamente
ben definiti e apparentemente poco soggetti alle forze centripete e
centrifughe dell’esistenza. È da poco uscito per Utelibri un bel
libro titolato Jane Austen si racconta, per la firma di
Giuseppe Ierolli (pp. 142, euro 13), una biografia sui generis basata
interamente sulle lettere, le poche sopravvissute, dell’autrice
inglese. Il testo, di taglio impressionistico e non a caso inaugurato
da un commento tagliente e preciso di Tomasi di Lampedusa, è curato
da un appassionato traduttore di Emily Dickinson, prima ancora che
della Austen. Non si affianca certo, per aspirazioni analitiche, ai
lavori dei vari La Faye, Nokes, Tomalin, ma senza dubbio si aggiunge
al fecondo panorama italiano di studi sulla scrittrice inglese con
una sua propria dignità, regalando al lettore curioso più d’un
motivo di interesse.
Il saggio presenta la
vicenda di Jane Austen innanzitutto come una «storia familiare»,
segnata dal rapporto con gli affetti prossimi, la sorella Cassandra,
i fratelli, i nipoti: una chiave non da poco per permetterci di
sondare la complessa personalità della scrittrice. E non indugia
morbosamente, com’è avvenuto ad esempio di recente con il film
Becoming Jane, su scampoli di flirt amorosi di cui si sa poco
o nulla, e che rivelano ancora meno dei segreti di Jane Austen. Pone
l’accento, invece, su quel complicato rapporto idiosincratico tra
arte e vita che trasforma i romanzi della Austen in una sorta di
commento obliquo sulla propria esistenza, un’esistenza di ragazza,
come la descrive una zia, «niente affatto graziosa e molto compita»,
che una volta divenuta donna saprà dar voce al suo «particulare»
dipingendo ritratti sociali di una precisione narrativa inarrivabile.
L’affidarsi alle
lettere come unica fonte per la ricostruzione di una vita privata ben
si adatta allo stile dei romanzi di Jane Austen, alcuni dei quali si
suppone abbiano visto una prima stesura proprio come romanzi
epistolari, seguendo così il solco tracciato da quel Samuel
Richardson, padre del romanzo inglese, le cui storie si avvitano e si
snodano proprio a partire da scambi di lettere. D’altro canto, il
rilievo che queste ricoprono nella biografia di Jane Austen è
provato dalle opinioni stesse dell’autrice, che scrivendo alla
sorella nel gennaio 1801 rivela: «ormai ho acquisito la vera arte
epistolare, che come ci hanno sempre detto, consiste nell’esprimere
su carta esattamente ciò che si direbbe alla stessa persona a voce;
ho chiacchierato con te quasi alla mia velocità abituale per tutta
questa lettera». È una consapevolezza fondante per addentrarsi
nelle fitte maglie dell’evoluzione del novel inglese. Se
Richardson pensava, nell’avvicendarsi tumultuoso nei suoi romanzi
epistolari, di poter sfiorare il realismo tramite la tecnica del
«writing to the moment», ovvero annotando tutto quel che
stava avvenendo proprio nel momento in cui avveniva per dare
l’impressione di estrema urgenza e anticipando così effetti
stenografici, per la Austen l’andamento epistolare rappresenta al
tempo stesso un commento sul reale e una modalità dialogica per
stabilire ponti, contatti con chi si ha non più vicino. È da quelle
«chiacchierate» scritte nero su bianco che si evince il
posizionamento dello sguardo di Jane Austen sul mondo, uno sguardo
capace di annotare fin nel dettaglio più delicato il sottile ritmo
di una emozione, la fragile eco di un pensiero taciuto.
Se Henry James crede sia
compito del romanziere realista ottenere quella che chiama la «air
of reality», Jane Austen si preoccupa di riempire quell’aria
di parole sussurrate in modo preciso e con forza tanto circostanziata
da donare credibilità ai suoi ritratti e inserire al contempo, nel
quadretto di genere, lo stesso complice lettore. Come ci ricorda
Ierolli, Robert William Chapman, curatore dell’epistolario, di
fronte alla possibile obiezione che l’interesse delle lettere della
Austen non fosse se non privato, non avendo nulla da rivelare della
sua articolata personalità, risponde ricorrendo proprio al parallelo
tra arte e vita: «queste lettere sono in realtà prive di interesse?
Io non credo. Persino se Jane Austen non avesse altro per cui essere
ricordata, le sue lettere sarebbero degne di essere conosciute. Lette
con attenzione, forniscono un ritratto della vita della classe
medio-alta di quel tempo che è sicuramente senza rivali, e non
descrivono solo modi di vivere, ma anche persone. La stessa famiglia
di Jane Austen, con le sue ramificazioni attraverso i matrimoni, è
in se stessa un argomento più esteso – direi quasi, più ambizioso
– di qualsiasi altro trattato nei suoi romanzi».
Gran parte
dell’epistolario della Austen è andato distrutto per opera proprio
di quell’amata sorella e confidente, Cassandra, preoccupata di non
divulgare particolari poco appropriati della loro vita familiare.
Così, ogni ricostruzione biografica basata sulle lettere andrà
inevitabilmente a fondarsi sull’ipotesi di assenze più che sulla
certezza di presenze. Tuttavia, rintracciare i profili di
un’esistenza fugace nelle scie lasciate su campo bianco da
inchiostro epistolare, è forse l’unico modo per far sì che quelle
annotazioni meditate non si tramutino inesorabilmente in docili dead
letters, ovvero in silenziose e innocue lettere smarrite.
alias domenica – il
manifesto, 10.08.2013
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