Pio IX |
Da roccioso diniego,
quale era stato Gregorio xvi, punto di resistenza di tutte le
preventive obiezioni al cambiamento, il vescovo di Imola salito al
soglio di Pietro col nome di Pio IX si presta a figurare da
mallevadore e vindice della patria, della libertà, della
indipendenza nazionale, della Costituzione, persino della
modernizzazione dei trasporti e delle ferrovie. Viva il papa
liberale! Viva l’Italia!
Non è vero, ma ci credo:
questo il senso del biennio 1846-48. E non solo agli occhi dei
posteri. Un sonetto di Francesco Dall’Ongaro - prete spretato e
quarantottardo a sinistra di Manin - lo mostra lucidamente: Pio IX è
una creatura dell’immaginario. La recitazione si fa universale. Nei
teatri dello Stato pontificio - a Bologna e Cesena già in agosto, a
San Giovanni in Persiceto in ottobre - il “Sommo Carlo” invocato
nel terzo atto dell’Ernani deve togliersi di mezzo, benché
si tratti di Carlo Magno e ne canti Carlo v, per essere sostituito da
un inopinato "O sommo Pio” prorompente dalla cronaca.
E la recita traborda, esce dalle sale, si fa a Roma comunione sociale, con epicentro nei grandiosi cortei e banchetti, in una edizione politicamente riveduta e corretta delle feste romane, dove tutti - uomini e donne con la coccarda tricolore - recitano la scoperta e la mistica della cittadinanza. Il far teatro è divenuta una pratica sociale semiunanime e si è riversato fuori, non importa se le sale teatrali rimangono vuote - come sarà poi, ma ora per una forma di assenteismo e di contrasto politico, nel diverso contesto del dopo ’48. Gustavo Modena prevede che potranno restare vuote per anni. O piuttosto - potremmo aggiungere - diventano lo spazio di una nuova autorialità diffusa e fuori programma, di una presa della parola fatta di discorsi, cori, versi, cantate. Mentre si danno azioni sceniche più dirette, teatro di strada. Anche dei giochi di parola escogitati dall’“arguzia popolare", che a Venezia, dove l’I.R. polizia proibisce inni più dispiegati, suggerisce canticchiamenti come questo: “Via l’x con l’i da drìo, / e l’uselin che fa pio pio".
Un testimone molto vicino a Verdi fa capire in una lettera del 9 novembre 1846 a che punto sia giunto l’"innamoramento” collettivo per questo papa "diverso”:
E la recita traborda, esce dalle sale, si fa a Roma comunione sociale, con epicentro nei grandiosi cortei e banchetti, in una edizione politicamente riveduta e corretta delle feste romane, dove tutti - uomini e donne con la coccarda tricolore - recitano la scoperta e la mistica della cittadinanza. Il far teatro è divenuta una pratica sociale semiunanime e si è riversato fuori, non importa se le sale teatrali rimangono vuote - come sarà poi, ma ora per una forma di assenteismo e di contrasto politico, nel diverso contesto del dopo ’48. Gustavo Modena prevede che potranno restare vuote per anni. O piuttosto - potremmo aggiungere - diventano lo spazio di una nuova autorialità diffusa e fuori programma, di una presa della parola fatta di discorsi, cori, versi, cantate. Mentre si danno azioni sceniche più dirette, teatro di strada. Anche dei giochi di parola escogitati dall’“arguzia popolare", che a Venezia, dove l’I.R. polizia proibisce inni più dispiegati, suggerisce canticchiamenti come questo: “Via l’x con l’i da drìo, / e l’uselin che fa pio pio".
Un testimone molto vicino a Verdi fa capire in una lettera del 9 novembre 1846 a che punto sia giunto l’"innamoramento” collettivo per questo papa "diverso”:
Si era sparsa la ciarla che una mattina portarono del cioccolatte al Papa, e che era avvelenato. Non bisogna crederlo; perché sono i fanatici quelli che l’inventano. Mi hanno detto persone che sono venute da Roma che se Pio IX morisse non si salva un Cardinale, che sicuramente sarebbero tutti uccisi dal popolo; il quale non li può più soffrire, perché sono oppositori delle riforme veramente paterne di quel stragrande miracolo di Papa.
da Ritorni di fiamma. Storie italiane, Feltrinelli 2014
Nessun commento:
Posta un commento