Gesù, Giuseppe e Maria in un presepe nepoletano del Settecento |
Nella rubrica “Parole”
del mensile “micropolis”, oggi ottimamente curata da Jacopo
Manna, è comparsa nel mese di dicembre 2015 la voce presepio.
La riprendo qui, seguita da una mia lettera aperta al caro compagno
che ne è autore. La speranza è di sollecitare un dialogo su questo
come su altri temi controversi. (S.L.L.)
La figurina di un mugnaio in un presepe moderno |
PRESEPIO
di Jacopo Manna
Il presepio è cosa
difficile da definire: in senso stretto è una ricostruzione della
Natività eseguita seguendo le scarsissime indicazioni del vangelo di
Luca, con l’aggiunta di alcuni particolari tradizionali. L’origine
a quanto sembra risale al teatro medievale, anche se a farla
diventare un’usanza stabile fu la grande messa in scena organizzata
nel 1223 da san Francesco a Greccio col contributo di tutta la
popolazione locale. Il presepio nasce insomma come azione sacra
collettiva a grandezza reale, per trasformarsi ben presto in
riproduzione con figure a scala ridotta (il più antico esemplare
esistente è addirittura del 1280): a renderlo popolare fra la gente
fu inizialmente l’attività dei compagni di Francesco, che ne
promossero la diffusione come forma di insegnamento devozionale prima
nelle chiese e poi nelle famiglie. È un prodotto dell’artigianato,
un tableau vivant, una forma di culto, una componente della
vita domestica, una tradizione antica, un segno identitario: in altre
parole, una istituzione culturale.
Il 25 dicembre 1931 a
Napoli Eduardo De Filippo mise in scena un atto unico dal titolo
Natale in casa Cupiello. Erano previste nove repliche: restò
in cartellone fino alla fine di maggio. Gli spettatori che
affollarono per mesi il Teatro Kursaal dovettero provare una strana
sensazione, di pena e insieme di grande divertimento; quel ménage
scombinato in cui il padre e il figliolo gareggiano a chi è più
caparbio, la figlia sposata sta mandando in pezzi il matrimonio e la
madre, unica consapevole della situazione, è totalmente abbandonata
a sé stessa, sembra costruito rovesciando minuziosamente tutte le
caratteristiche della famiglia ideale: non si sa se sentirsi male o
sghignazzare. Quanto basta per spiegare il sorprendente successo di
pubblico della pièce (e la successiva rielaborazione in tre
atti). Come spesso avviene nel grande teatro moderno, a concentrare
su di sé le contraddizioni della scena è un oggetto, qualcosa di
visibile e tangibile: il presepio - anzi, “o’ presepe” - la cui
costruzione assorbe tutte le cure di Luca Cupiello. C’è qualcosa
di immensamente ridicolo e insieme di tremendo nel prendere un
oggetto così caro ai bambini, così radicato nel costume napoletano,
così prossimo al culto della Sacra Famiglia e metterlo al centro di
una vicenda in cui un uomo che ha lo stesso nome dell’evangelista e
un carattere ottusamente infantile non si accorge che la sua, di
famiglia, ormai è andata a picco. Lui, ha da badare al presepe.
Ogni anno, puntualmente,
torna il Natale. E altrettanto puntualmente, da un po’ di tempo in
qua, torna la stessa scenetta: in qualche scuola italiana qualcuno
decide che il presepio o i canti tradizionali sono attività
discriminatoria; questa viene pertanto sospesa o modificata; i
leghisti e l’ultradestra denunciano il pericoloso attentato alle
sacre tradizioni nazionali, recandosi talvolta sul luogo del delitto
muniti di presepe portatile e di adeguato repertorio canoro; i media
ne discutono; la cosa si sgonfia; l’anno dopo si ricomincia.
L’Italia è ormai una enorme casa Cupiello, in cui ci si sfida,
come Luca e suo figlio Tommasino, a colpi di “Dì che te piace
‘o presepe” e “Nun me piace ‘o presepe”. E
intanto tutto intorno frana, tracima ed esonda. Forse, se
cominciassimo ad ammettere che il presepio è prima di tutto una
rappresentazione molto amata alla quale ognuno che lo voglia può
partecipare secondo la propria sensibilità, la finiremmo con le
dilettantesche farse annuali e potremmo occuparci tutti di cose più
urgenti.
micropolis, dicembre 2015
Jacopo Manna nella cartolina augurale dei suoi allievi (dalla rete) |
Caro Jacopo,
mi è piaciuta questa
voce del tuo vocabolario ed ho molto apprezzato il ricordo del
capolavoro di Eduardo. Ma nella tua chiusa c'è qualcosa che non mi
ha convinto. Proverò a dire di che cosa si tratta, anche ricorrendo
alla memoria.
Quando facevo
l'insegnante era noto a tutti, preside, colleghi, studenti, famiglie,
il mio ateismo militante. Non solo credevo, con argomenti che ritengo
solidi, che le religioni siano illusione o mistificazione, ma pensavo
che nella società fanno più danno che bene, per cui ritenevo un
dovere denunciarne l'inconsistenza e mostrarne le deleterie
conseguenze: sacrifici umani, guerre di religione, odi, intolleranze,
inquisizioni, proibizioni assurde, ostacoli alla ricerca scientifica
e artistica eccetera.
Nondimeno a Natale, il
giorno prima delle vacanze, senza alcun problema cantavo alle alunne
e agli alunni un paio di nenie della novena, nel mio dialetto
siciliano. Non avevo bisogno di spiegare che, dal mio punto di vista,
stavo cantando un mito, anche se per una parte - non so quanto grande
- dei miei cari ragazzi e delle mie care ragazze quella storia
rappresentava assai più che una bella favola.
In quel tempo, a mia
memoria, se a un gruppo di allievi e allieve, ispirati o no dal
collega di religione, saltava il ticchio di fare il presepe in una
delle classi né io né altri opponevamo obiezioni, chiedendo
rimozioni, tutt'al più ci scherzavo su bonariamente. Io stesso per
alcuni anni ho costruito il presepio con i miei figli, non
battezzati, non avvalentesi dell'insegnamento della religione e –
nonostante la tenera età - consapevoli del valore che attribuivo a
quella storia: la favola (inventata, ma piena di insegnamenti) di una
coppia di perseguitati politici, cui nasce un figlio in condizioni di
emergenza, e della solidarietà terrena e celeste che sorge intorno a
loro. Scelte personali a parte, non credo che a quel tempo si
attribuisse un gran valore alla presenza o meno del presepio nelle
scuole. I ragazzi, quando lo apprestavano all'interno di una classe,
non chiedevano neanche permessi.
Mi chiedo perché non sia
più così, perché ogni anno debbano ripetersi polemiche, piuttosto
stucchevoli, sulla materia.
Le ragioni sono
probabilmente molte. Io ne vedo soprattutto due.
La prima è la presenza
nelle scuole, talora massiccia, di allievi le cui famiglie ossequiano
religioni non cristiane, l'Islam innanzitutto. Il presepio viene
letto come segno di discriminazione da alcune di queste famiglie
talora per esagerazione integralistica, talaltra perché qualche
insegnante, qualche alunno o suo familiare, usa la sua collocazione
in classe o a scuola come una bandiera per distinguere chi è il
nativo (padrone di casa) e chi l'intruso, l'alieno. Non sempre c'è –
come Jacopo sembra pensare – qualcuno che arbitrariamente decide
che quella è una attività discriminatoria, ma è il contesto a
renderla spesso una attività effettivamente discriminatoria. Una
scuola, che è di fatto multiculturale e multireligiosa, non è
inclusiva come dovrebbe essere, se dà valore a una sola tradizione,
a una sola religione. In questi casi, secondo me, potrebbe funzionare
una soluzione alla francese, di eliminazione dallo spazio scolastico
di tutti i simboli religiosi, oppure (soluzione che io preferisco)
l'uso della diversità come risorsa educativa. Gli insegnanti –
sono lì per questo – dovrebbero dare diritto di cittadinanza a
diverse ritualità religiose (o anche antireligiose, se se ne
presenta l'occasione). Mi rendo conto che è cosa un po' più
difficile con l'islamismo, religione che diffida della
rappresentazione e tende a svalorizzare l'immagine; ma credo che con
un po' di sforzo sia sempre possibile trovare attività che
sottolineino, agli occhi di tutti gli alunni, la pari dignità delle
credenze religiose, areligiose e antireligiose.
La seconda ragione
riguarda l'evoluzione del cattolicesimo in Italia. Negli anni
settanta e nei primi ottanta prevale nella Chiesa la spinta del
Concilio verso il dialogo, anche se il dialogo comporta, per essere
vero, una base di parità tra i dialoganti e dunque la rinuncia a
rendite di posizione. In verità non pochi cattolici erano a quel
tempo orgogliosi di affrontare l'avventura di una rievangelizzazione
nel mondo secolarizzato senza godere di alcun privilegio e c'erano
perfino gruppi più ristretti, tuttavia significativi, che arrivavano
a mettere in discussione lo stesso Concordato. Accadeva anche in
quegli anni che il presepe nelle scuole si facesse, ma, quando ciò
avveniva, si trattava di un “presepe spontaneo”, che non
conteneva la sottolineatura di un primato, né la pretesa di marcare
un territorio.
Questa apertura verso la
modernità e il confronto, pur contrastata, resta prevalente negli
anni di Paolo VI, un papa che volle e seppe - pur con qualche
arretramento (la “teologia della liberazione” per esempio) –
mantenere vive e operanti le indicazioni del Concilio. Il suo
capolavoro politico, in Italia, fu il referendum sul divorzio, nel
quale difese dalle tentazioni integraliste la sua chiesa garantendo
il diritto di intervento all'ampia schiera dei “cattolici del no”,
tra cui si collocarono con qualche sorpresa anche figure come Carlo
Carretto, che non era propriamente un progressista.
Col papa polacco la
musica cambiò subito: ne fu segnale il referendum sull'aborto, nel
quale invece non vennero tollerate dalla gerarchia voci dissonanti e
il dissenso venne quasi completamente silenziato. Dopo quella
sconfitta sempre più numerose si fanno le battaglie della CEI,
soprattutto negli anni della presidenza Ruini, per affermare il
“valore pubblico” dell'esperienza religiosa, mentre la diplomazia
vaticana si batteva per l'inserimento delle “radici cristiane”
nelle carte fondative dell'unione continentale. In Italia si trattò
di un vero crescendo sui singoli temi e, sul piano generale, della
rivendicazione di un “primato morale e civile”, che toccò il suo
apice nel “Giubileo del Millennio”. Intanto, sebbene i processi
di secolarizzazione si facessero più vasti ed espliciti (il boom
delle convivenze e delle unioni non sacramentali è un ottimo
indicatore), la Chiesa guadagnava prestigio nei confronti di
istituzioni politiche sempre più screditate, otteneva sostegno
economico in campi come quello educativo e sanitario, ampliava il suo
potere e godeva perfino di una sorta di diritto di veto per le leggi
su “temi eticamente sensibili”. Cresceva già allora la
richiesta, organizzata, di riconoscimenti anche simbolici, inclusi i
crocifissi negli uffici pubblici e i presepi nelle piazze e nelle
scuole. L'impressione è che si trattasse di una strategia e che essa
prosegua oggi.
Caro Jacopo, l'Italia è,
per fortuna, ancora molto varia ed è possibile che ci siano
movimenti islamici o laicisti pronti ad alzare la voce contro il
carattere discriminatorio del presepio, non appena sentono che in
qualche scuola è stato preparato; ma ci sono, forse anche più
spesso, gruppi integralisti che cercano di piazzare un presepe in
ogni dove, anche in posti ove nessuno ne sente la necessità, e
chiedono “pronunciamenti” pro-presepio a dirigenti scolastici, Consigli comunali, Consigli
di Istituto eccetera. Non si tratta solo di leghisti (e simili) che
leggono il presepe come segno “identitario” degli indigeni da
sbattere in faccia agli invasori, ma anche di cattolici che
considerano quella presenza una manifestazione di egemonia. Anche
costoro, insieme agli altri, favoriscono il ripetersi delle
dilettantesche farse di cui scrivi.
Tante cose belle per
l'anno nuovo.
Salvatore
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