Dell’importanza della
Signorina Cormon era consapevole lo stesso Balzac, che lo
definì «una delle mie cose migliori»: del resto, il romanzo
affascinò Marcel Proust e attirò l’attenzione di un grande
critico come Erich Auerbach, che quando in Mimesis si
concentra sullo «spirito individualizzante e atmosferico dello
storicismo» di Balzac, cita in proposito proprio una frase della
Signorina Cormon: «le epoche stingono sugli uomini che le
attraversano». Del romanzo si occuparono, dedicandogli attente
analisi, critici come Fredric Jameson, che nell’Inconscio
politico ne ha dato un’interpretazione marxista, e Philippe
Hamon, che ne ha parlato a proposito della descrizione e dell’ironia,
ma anche filologhi specialisti come Philippe Berthier, Stéphane
Vauchon e Nicole Mozet che hanno dedicato al romanzo di Balzac
scrupolose cure filologiche.
Ha fatto dunque benissimo
Sellerio ad accogliere quella che è la prima traduzione italiana in
assoluto dell’importante romanzo di Honoré de Balzac La
signorina Cormon (versione molto rigorosa e scorrevole di
Francesco Monciatti, pp. 474, euro 14,00) il cui titolo originale è
La vieille fille, letteralmente «La zitella», che esce
accompagnato da una sapiente, dettagliata postfazione di Pierluigi
Pellini – il quale nella postfazione a questa edizione italiana, di
cui è stato promotore, non esita a definirlo «un capolavoro del
romanzo moderno» – e da un meticoloso apparato di commento, che
non disturba la lettura distesa del testo, perché relegato in fondo
al volume (sebbene il piccolo formato tascabile renda scomoda la
consultazione dell’ampio e utilissimo apparato delle note).
Tradurre Balzac,
contrariamente a quanto i lettori superficiali potrebbero pensare,
non è impresa facile e questo testo risulta particolarmente arduo da
rendere in italiano, per i frequentissimi doppi sensi, le molte
allusioni ironiche, la scelta sistematica dell’ambiguità
semantica, a cominciare dal nome stesso della protagonista, che non
ha niente a che vedere con la cittadina friulana-slovena di Cormon,
ma è quasi sicuramente anagramma fonico di Mon corps, il mio
corpo: un corpo sgraziato, quello di Rose-Marie-Victoire, carnoso e
abbondante, tenuto sotto controllo dalle pratiche religiose, dagli
occhi vigili e pettegoli dei concittadini e dai consigli del
direttore spirituale, ma percorso da fremiti, sconvolgimenti notturni
e desideri d’amore (che saranno destinati alla frustrazione e a un
sostanziale zitellaggio).
Il grande tema di fondo è
la vita di provincia, indagata con spirito critico, spesso caustico e
il punto di vista del narratore è quello del parigino, in una
dialettica tipicamente francese: grande capitale vivace, moderna,
brillante (e corrotta) versus provincia addormentata, immobile,
stolidamente conservatrice (e dimentica delle antiche virtù). Siamo
nella città di Alençon, in Bretagna, e l’occhio del romanziere ne
mette sistematicamente in rilievo tutti gli aspetti, sia quelli di
facciata sia quelli che si nascondono alle apparenze: rigida
classificazione dei diversi strati sociali e delle loro gerarchie,
accumulo di oggetti e memorie del passato (e segreta speranza di
trovare in qualche ripostiglio un tesoro nascosto dagli antenati),
culto ossessivo del cibo e del nutrimento (mentre a Parigi si mangia
in punta di forchetta), centralità del denaro, considerato come
sterile accumulo e non come circolazione della ricchezza, mania
dell’ordine perseguita più per non aver altro da fare che per
vocazione naturale, «crassa indifferenza verso il comfort professata
con orgoglio».
Nella casa della
signorina Cormon, che è al centro della vicenda ed è descritta
minutamente in ogni sua parte, nulla è effimero, tutto appare
eterno: vi si respira «l’aria della vecchia, inalterabile
provincia» e a un certo punto il narratore commenta, con largo usa
dell’ironia e di quella che è stata chiamata la prospettiva per
incongruenza: «Certa gente, che parla molto di poesia senza capirci
nulla, blatera contro i costumi della provincia; però, prendetevi la
fronte con la mano sinistra, appoggiate un piede sull’alare del
camino, posate il gomito sul ginocchio (la posa, osserva Pellini, è
volutamente e ironicamente romantica) poi, se siete entrato in
sintonia con l’insieme dolce e uniforme costituito da questo
paesaggio, da questa dimora e dai suoi interni, dalla compagnia e dai
suoi interessi ingigantiti dalla pochezza dello spirito, come l’oro
battuto tra i fogli di pergamena, chiedetevi: che cos’è l’umana
esistenza? Sforzatevi di giudicare tra colui che ha scolpito anatre
tra gli obelischi egiziani e colui che ha giocato a boston per
vent’anni insieme a du Busquier, al signor di Valois, alla
signorina Cormon, al presidente del tribunale, al procuratore del re,
al reverendo di Sponde, alla signora Granson, e a tutti quanti? Se il
ripetersi esatto e quotidiano dei soliti passi su uno stesso sentiero
non è la felicità, le somiglia così tanto che le persone condotte
dai turbini di una vita frenetica a riflettere sui benefici della
quiete diranno che questa era la felicità».
In questo passo sono
nominati tutti i personaggi principali della vicenda, eccetto due: la
«casta» Susanna, furba e provocante come l’omonimo personaggio
biblico che, dopo aver giocato un bel tiro agli uomini della
compagnia, se ne è già partita alla volta di Parigi, lontano dalla
provincia, per fare la vita lussuosa della prostituta d’alto bordo,
e il giovane idealista, romantico, liberale e aspirante scrittore
Athanase Granson, innamorato della signorina Cormon, destinato a
essere escluso da quella apparente «felicità» e finire suicida.
Al centro della vicenda
c’è quindi il triangolo composto dalla signorina Cormon e dai due
aspiranti alla sua mano, fra i quali lei è destinata a fare la
scelta sbagliata sposando quello che finirà per introdurre, nella
commedia della vita di provincia, i temi drammatici della fortuna
materiale, spregiudicata e pacchiana della borghesia in ascesa,
dell’infelicità, anche sessuale, della protagonista e dello
svuotamento del maniacale perseguimento della felicità consentito
dalla vita di provincia: il matrimonio.
I tre personaggi sono,
come ha giustamente sostenuto la critica più attenta e come spiega
efficacemente Pellini nella sua postfazione, al tempo stesso
realistici e allegorici. Ciascuno di loro rappresenta e incarna
un’epoca storica: l’ancien régime (l’aristocratico
decaduto signor di Valois), l’impero (il borghese sicuro di sé du
Busquier), la Restaurazione (la signorina Cormon). Balzac descrive
con grande attenzione e perizia il loro aspetto fisico,
l’abbigliamento, le abitudini di vita, i discorsi, i loro tic
nervosi, le loro azioni e, accompagnandoli con le metafore
appropriate, costruisce al tempo stesso dei personaggi che il lettore
impara a conoscere e le posizioni storico-ideali che incarnano. Ogni
dettaglio (e sarà questo il grande insegnamento di Balzac per
Dickens e Tolstoj), ogni minimo particolare ha un significato sicuro
e profondo, è un investimento semantico. Le descrizioni sono
straordinarie. Il naso «prodigioso» del signor di Valois divide il
suo volto pallido in due parti che danno l’impressione di non
conoscersi fra loro e diventa il simbolo della doppiezza della sua
vita, fra esteriorità formale e interne ossessioni, addirittura
delle due fasi in cui essa si svolge. Il parrucchino che nasconde
(non sempre, purtroppo) la calvizie del du Busquier, rivela che sotto
i suoi modi prepotenti e i desideri spregiudicati di affermazione
sociale sta una reale (e sessuale) impotenza. Basti, a proposito di
descrizione, dare l’esempio di quella dettagliata che accompagna
l’entrata in scena della signorina Cormon.
È un ritratto
straordinario, che va contro tutte le convenzioni, e parte,
diversamente dal solito, dai piedi: «I piedi dell’ereditiera erano
grandi e piatti; la gamba, che spesso mostrava quando, senza alcuna
malizia, sollevava il vestito dopo la pioggia, uscendo di casa o da
Saint-Léonard, non poteva esser presa per una gamba di donna. Era
una gamba nervosa, dal polpaccio piccolo, duro e rilevato, come
quello di un marinaio». Quale altro scrittore avrebbe scelto di
puntare l’obiettivo sulle gambe della povera signorina Cormon, per
farci conoscere il suo carattere e al tempo stesso per rappresentare
l’apparente solidità e al tempo stesso la inevitabile fragilità
della Restaurazione?
alias domenica – il
manifesto, 22.03.2015
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