1. Durante gli anni del
boom economico e della rivoluzione dei consumi Pasolini e Fortini ne
hanno inquadrato gli effetti nelle ormai note categorie di “mutazione
antropologica” e “surrealismo di massa”. Spesso si è discusso
sulle ripercussioni che il moderno capitalismo ha avuto in ambito
sociale ma è interessante, sempre attraverso questi due autori,
esaminare il problema da un’altra prospettiva, ossia quella che si
sofferma a riflettere sugli sconvolgimenti che la mutazione ha
operato anche all’interno della produzione culturale e del lavoro
intellettuale.
In molte pagine della
saggistica di Franco Fortini risuonano le note francofortesi della
critica alla cosiddetta industria culturale. È fondamentale capire
l’influenza che tale nozione esercita sull’analisi di Fortini
anche per coglierne un’importante differenza con la critica di
Pasolini. Quest’ultimo ebbe sempre «un atteggiamento di rifiuto e
di ignoranza procurata nei confronti della critica della cultura e
della industria culturale» poiché essa lo avrebbe costretto al
compito spiacevole di «una critica dei propri strumenti di
comunicazione che prevedeva paralizzante».
Così Fortini coglie il
punto esatto in cui la teoria dell’amico cade in contraddizione: è
vero che Pasolini denuncia la minaccia di un «Potere senza volto» e
invita a combatterlo, ma il suo grido d’allerta promana dalle
strutture comunicative interne a quello stesso Potere. Egli è sceso
a patti con le logiche del mercato letterario e dei nuovi strumenti
di comunicazione di massa, per questo non può che criticare il
sistema capitalistico rimanendo in parte impigliato alle sue reti.
Dissertare più approfonditamente sui meccanismi dell’industria
culturale avrebbe significato, per lui, ammettere una certa
complicità.
Fortini, invece, guarda
ad essi dal di fuori e cerca di dare un volto al nuovo Potere
invitando a non accontentarsi di ricevere il sapere come un prodotto
finito di cui non si conosca la provenienza; vivere nel mondo ad
occhi aperti e non da “sonnambuli” significa, infatti,
interrogarsi assiduamente su cosa si nasconda dietro la manipolazione
dell’informazione che gli organismi istituzionali tentano di
celare. Dunque per Fortini il “falso progresso”, che tanta parte
aveva avuto nella riflessione dell’ultimo Pasolini, è evidente
soprattutto nelle condizioni del mercato a lui contemporaneo: “Per
dirla con enfasi sintetica: inserire qualche altro milione di
italiani nel circuito di consumatori di periodici, libri, esposizioni
e dibattiti, ‘stante il mercato quale è oggi’ è, secondo me,
falso progresso ossia la più subdola forma di regresso. La vittoria
sul semianalfabetismo non può conseguire a battaglia diversa da
quella contro lo sviluppo della “industria delle coscienze” e
contro l’annichilimento di intelligenze e volontà compiuto dalla
“cultura” e dai suoi addetti”.
La cultura diviene merce
al pari delle altre e si apre ad ampie fasce di consumatori; non a
caso l’ennesimo inganno del sistema occidentale è quello di far
credere che la democrazia delle diverse società possa misurarsi in
base alla quantità di informazioni, mentre per Fortini bisognerebbe
impostare il discorso in termini di qualità e capire chi è
interessato, eventualmente, ad impedire il miglioramento di
quest’ultima e perché. Tuttavia la domanda continua ad essere
rimossa e si è costretti a vivere «il sapere senza democrazia, cioè
fondato sul privilegio o su di una sua anche miserabile frazione, e
la democrazia senza sapere, cioè fatta di menzogna e impotenza».
Le politiche
internazionali traggono beneficio da quel circuito sempre più
allargato di consumatori poiché diffondere l’illusione, a livello
popolare, di un sapere interamente posseduto e saziare quella fame di
status culturale del ceto medio, aiuta a mantenere assopite le
coscienze e a distogliere l’attenzione degli individui dalle reali
problematiche della società, scoraggiando così ogni altro possibile
interrogativo sul funzionamento dei poteri multinazionali. Autorità
politiche e mediatiche sono artefici di un falso sapere comune
finalizzato a tenere lontano il «muro del rischio», ossia
quell’area della consapevolezza critica che nessuno osa avvicinare;
sono numerose le vie traverse offerte dal sistema per evitare che gli
individui decidano di affrontare con responsabilità la zona del
rischio. Scrive Fortini che i dibattiti televisivi, le conferenze e
le tavole rotonde non sono mai state così vivaci, si può parlare
confusamente di tutti quei temi che la sinistra degli anni Sessanta
«aveva strappato alla ipocrisia generale», la droga, l’eros e
così via, purché facciano da diversivo e allontanino dalle vere
questioni del Paese. Così l’informazione mediatica pretende di
essere democratica «perché di tutti come la legge, e come di fronte
alla legge oggi si proclama l’eguaglianza del cittadino di fronte
alle enciclopedie».
Ricordando Habermas
Fortini avverte che nel momento in cui l’informazione è diventata
diritto-dovere di tutti la sua manipolazione si è affermata come
vera industria del secolo; eppure la democraticità del sapere è
anche, contraddittoriamente, oligarchica. Ciò vuol dire che il
numero sempre crescente degli specialisti e degli esperti dei vari
settori del sapere serve a persuadere l’opinione pubblica che molte
questioni non possono che essere materia adatta esclusivamente agli
addetti ai lavori, ossia a minoranze che si accaparrano il diritto di
scegliere; il proliferare delle varie specialità consente anche di
poter continuamente scaricare su altri “esperti”, con la scusa di
ritenerli più adatti, il rischio e l’onere di smascherare i nessi
conoscitivi del sistema. Per Fortini aderire a questa «gerarchia
delle conoscenze» significa assecondare le logiche del potere e la
più subdola ideologia della modernizzazione; sono tanti, egli
sostiene, i «don Ferranti e i don Abbondi pronti al peggio purché
non venga meno la fiducia nella gerarchia fondata sul sapere e
l’informazione, né vacilli la certezza che le cose di stato sono
troppo complesse perché se ne occupi la gente comune senza la
mediazione di un compatto e crescente corpo di specialisti».
Si creano di conseguenza
varie corporazioni intellettuali che sono, di fatto, al servizio
delle strategie di mercato del potere politico-economico. Come già
Pasolini aveva denunciato la falsa tolleranza delle democrazie
occidentali così Fortini mette in guardia contro le «maschere della
tolleranza», ossia contro la libertà illusoria che le pubbliche
autorità fingono di concedere nella scelta dei consumi. La
modernizzazione e il progresso tecnologico hanno fatto sì che la
mercificazione della cultura, insieme alla comunicazione mediatica,
plasmasse un’opinione pubblica a immagine e somiglianza delle
volontà dei poteri che quella stessa cultura hanno prodotto.
La difficoltà sta
proprio nel comprendere come, essendo tale «la condizione della
libertà in un universo di merci», l’oppressione possa somigliarle
allo stesso modo in cui «una perla coltivata somiglia ad una
autentica»8.
Se tutto questo vuol dire
democrazia Fortini non teme di autodefinirsi antidemocratico: “È
autoritario, è nemico della libertà chiunque ritenga che il mercato
non debba essere il regolatore supremo della circolazione delle
informazioni, del sapere, della cultura? In questo senso, sono
autoritario. È antidemocratico chi pensa che, esistendo di fatto una
censura indotta dal mercato e, in definitiva, dal potere
economico-politico, si debba agire perché ai livelli della
formazione intellettuale (la scuola ma anche i “media”) si
prepari la gente a usare con astuzia gli strumenti del mercato e a
resistere alla manipolazione? In questo senso sono antidemocratico”.
Ricordando un motto di
Adorno Fortini rammenta che «di quello di cui non si può parlare
bisogna parlare»; l’invito è a sfidare l’omertà collettiva e
il silenzio. Si crea infatti una solidarietà negativa tra
informatori e informati che contribuisce all’annullamento di
un’autentica opinione pubblica, e più questa scompare più è
necessario mantenerne la finzione tramite assordanti ed inutili
«ciarle culturali» da specialisti; causa della sua scomparsa è
l’improvvisa sovrapposizione «degli strumenti e delle sedi in cui
dovrebbe manifestarsi con quelli che la inducono». Sono soprattutto
due i mercati dell’opinione che si integrano a vicenda: uno è
quello più tradizionale che rispetta le gerarchie istituzionali e
tiene conto dei diversi livelli di prestigio e autorità
intellettuale, l’altro è quello prodotto dai media che punta al
controllo indiscriminato dei consumatori. Dunque la requisitoria
fortiniana è contro l’informazione inutile che non costituisce un
valido incentivo alla ribellione e all’azione politica, bensì lo
strumento attraverso il quale si diffonde la menzogna del sapere come
potere. Il «moto caotico delle opinioni», così come Fortini lo
definisce, genera impotenza e frustrazione; è anch’esso una
maschera di tolleranza dietro la quale si nasconde non un’autentica
libertà d’espressione, ma una controllata diffusione del consenso.
«Puoi dire e scrivere quel che vuoi, è vero, ma a condizione che
quel che dici non si faccia strumento di aggregazione» poiché chi
gestisce il sistema sa fiutare un simile pericolo.
In un simile scenario il
ceto intellettuale non può che perdere la sua originaria funzione di
guida morale e Fortini prende atto che ormai l’intellettuale-massa
è una realtà più che consolidata. Anch’egli, come Pasolini,
percepisce la minaccia di un potere tecnologico sempre più invasivo
che si maschera da scienza per sedere a fianco della classe dirigente
e mettersi al suo servizio. I media non sono, come invece furono gli
intellettuali, latori di consapevolezza, ma concorrono
all’elaborazione della falsa coscienza (nozione hegeliana presente
nel pensiero di Marx) e all’imposizione di quella ideologia globale
che è il mercato capitalistico. È dunque necessario creare veri
spazi d’opposizione in cui siano finalmente chiari i volti e i
«nomi dei nemici» così da poter combattere la demoralizzazione
culturale e la colonizzazione dell’inconscio promossa dalle
industrie del sapere e dall’informazione mediatica.
A tal fine si è detto
quanto sia necessario, secondo il parere di Fortini, l’affermarsi
di una critica dettagliata della produzione editoriale che incoraggi
i lettori ad interrogarsi sull’origine dei propri consumi culturali
e su quali interessi politici essi soddisfano. Egli racconta, in una
intervista rilasciata a Franco Brioschi, di essersi avvicinato al
mondo dell’editoria tramite le riviste e i suoi lavori di
traduzione; così ha potuto avere accesso ai segreti meccanismi
economici che regolano un simile ambiente. Nonostante il rapporto con
questa attività non sia mai stato portato avanti dall’“interno”,
essa suscita comunque un certo interesse per lo stretto legame che
intrattiene con la nozione gramsciana di «organizzazione della
cultura» (così scrive Fortini in Dieci inverni: «col
termine organizzazione della cultura si vuole intendere l’insieme
dei rapporti che intercorrono tra la produzione di cultura e le
strutture economico-politiche di una società. Così che la coscienza
della organizzazione della cultura equivale non solo a coscienza
della sua storicità ideale, ma del suo concreto condizionamento»).
Fortini sostiene però
che quest’ultima, nel caos moderno della comunicazione e
dell’informazione di massa, è andata incontro alla propria fine;
d’altronde già a partire dagli anni Sessanta, dopo il miracolo
economico, il mondo dell’editoria ha iniziato a trasformarsi: “A
partire dagli inizi degli anni sessanta il panorama è ormai
cambiato, e comincia a somigliare sempre più a quello attuale. Le
case editrici hanno perduto quel loro carattere, immaginario, per cui
credevano di essere veicoli della cultura, e quindi di essere
investite di una sorta di missione. E invece diventano sempre più
organi che veicolano delle mode. […] In quegli anni cambia
totalmente il panorama dell’editoria italiana, e cambia in questo
senso la nostra funzione di intellettuali all’interno di essa.
Comincia allora a formarsi un tipo di intellettuale, o di attività
intellettuale, di secondo rango […] Nel nostro paese manca una
critica dell’editoria, una critica che sia anche storia delle
collezioni e delle scelte editoriali. Di questo argomento non si
parla. E non si parla perché non esiste una forza sociale ed
economica che possa farlo[…]Dall’altro lato c’è un fenomeno
più generale, che investe tutte le forme di comunicazione: la fine
dell’opinione pubblica, nel senso di Habermas. Non esistendo più
un’opinione pubblica, non esiste più una critica letteraria
propriamente detta. Esistono finzioni. Tutti parlano di libri: ma
appunto non c’è mai un discorso che non si appoggi a un libro”.
Fortini ribadisce che
sono stati gli anni Sessanta a metterci con le spalle al muro. È
chiaro che da allora l’editoria non è più sinonimo di cultura
autentica bensì cassa di risonanza per le mode, così come la
lettura è ridotta ormai ad uno squallido «mattatoio». Perfino le
antologie dell’editoria scolastica sono, in realtà, le armi del
potere. Inoltre Fortini ricorda le due principali tendenze del tardo
capitalismo per poi rivelarne la contraddittorietà solo apparente:
da un lato, infatti, la cultura moderna aspira ad un pubblico di
massa reso omogeneo dal consumo di prodotti uguali per tutti,
dall’altro, invece, soprattutto attraverso le pubblicità
televisive, si regala l’illusione dell’unicità, ossia si propone
un «modello di individuazione estrema» che invita a distinguersi
dagli altri. Il risultato è uno «snobismo di massa, una corsa di
topi» culturale dove ognuno finge di essere quello che non è.
Questo doppio movimento ha un unico scopo: fare gli interessi del
mercato capitalistico e controbilanciare la manipolazione delle
coscienze con la concessione di libertà controllate. Dunque la
realtà dell’industria culturale, sinonimo per Fortini di «fabbrica
della coscienza», costituisce per lui uno degli aspetti più
allarmanti del falso progresso; è un punto cruciale sul quale non
smetterà mai di insistere dal momento che l’unica cultura di cui
ci si può occupare è «quella che smonta e spiega il processo
produttivo della cultura circostante e che cerca di farci capire come
funziona». Bisogna comprendere qual è la cooperazione di poteri che
presiede al modo di produrre, vendere e consumare la merce del sapere
così da avere sempre chiara la «pianta topografica del mercato».
2. C’è da dire che il
pericolo della commercializzazione letteraria non è più un
pericolo. È una vecchia realtà che muta forme. Noi ne siamo
leggermente sfiorati perché il nostro Paese è ancora scarsamente
industrializzato. D’altra parte pericolo commerciale e politico
sono una cosa sola. Grave è che siamo affatto impreparati di fronte
a tutti e due; ne è la prova il fatto che, nella piccola proporzione
in cui la industrializzazione letteraria ha colpito il nostro Paese,
noi l’abbiamo già totalmente subita. Da noi, essa si esprime
attraverso la subordinazione politico-commerciale degli scrittori ai
periodici e agli editori da cui traggono in massima parte i mezzi di
sostentamento.
Si è visto come svelare
il volto delle forze che governano le formazioni culturali sia una
delle ossessioni di Fortini. Quest’ultimo svolge la sua funzione
intellettuale consapevole che il mercato della cultura ha ormai
affidato agli organi tradizionali della mediazione tra pubblico e
scrittore, come appunto l’editoria, i giornali e le riviste, un
aspetto completamente diverso. Per Fortini il boom economico ha
significato anche la riproposizione dello stato di alienazione, lo
stesso che Marx aveva descritto in merito al lavoro meccanico delle
grandi industrie, all’interno dell’universo culturale. La
mercificazione del sapere e le sue forme di organizzazione sul
mercato decretano la fine di una ‘mediazione’ autentica tra
l’intellettuale e il suo pubblico. È il grande potere economico
che gestisce la circolazione delle idee, manipolandole a proprio
piacimento e fornendo, nello stesso tempo, l’illusione di una
democraticità di pensiero ed espressione.
L’industria culturale,
in accordo col potere politico, riesce ad alimentare l’illusione
dell’ indipendenza critica sebbene l’intellettuale sia ormai del
tutto asservito al sistema. Secondo Fortini è addirittura
impossibile distinguere la cultura di massa da quella d’élite dal
momento che esiste una notevole similarità tra le loro strutture e
una certa omogeneità fra i loro produttori e destinatari. Il venir
meno di una simile distinzione può «essere un modo per affermare
che le distinzioni di classe stanno per scomparire o per venir
introiettate, sì che in ognuno di noi convivrebbero ormai il padrone
e il servo, il capitalista e lo sfruttato, il produttore e il
consumatore di sub-cultura»23.
Ma ciò che qui si vuole
sottolineare è che Fortini ha piena coscienza della deformazione
degli strumenti culturali operata dal potere capitalistico; nel
momento in cui egli ne fa uso, si tratta comunque di un uso critico,
consapevole della strumentalizzazione a cui è sottoposto da parte
del sistema economico e dei nuovi condizionamenti in campo culturale.
In uno scritto intitolato Per i nemici della libertà
risalente all’ottobre del 1976, Fortini chiarisce quale sia il suo
pensiero riguardo al lavoro intellettuale: ... Lo so:/ mangio nel
piatto/ dell’amministrazione pubblica e anche in quello/
dell’editoria. E ci sputo/ dentro, seguendo l’esempio perverso/
dei bidelli, dei reclusi e dei tipografi./ Eppure sono proprio
persuaso:/ non è bene lasciare gli editori/ soli a decidere quali/
libri possiamo leggere e quali ignorare …”
Fortini sottopone
l’attività intellettuale e gli strumenti che essa utilizza ad una
severa autocritica. Costringe la cultura a ragionare su se stessa e
ad interrogarsi sui propri canali di trasmissione. Se il lavoro
letterario è ormai diviso tra i tanti «addetti ai lavori», è
necessario ricercare le radici della nuova gestione del sapere e
ricostruirne i processi per essere sempre critici attenti nel mercato
delle lettere. In altre parole il volto del potere economico deve
essere sottratto al suo anonimato e per far questo un passo obbligato
è appunto la riflessione della cultura sul funzionamento e la
manipolazione dei propri strumenti divulgativi, ossia, se così si
può dire, una sorta di riflessione metaculturale.
Si è visto come una
differenza fondamentale tra l’analisi di Fortini e quella di
Pasolini consista nel fatto che quest’ultimo, nella sua violenta
denuncia degli effetti della mutazione, tralascia la critica ai
meccanismi dell’industria culturale per il semplice motivo che egli
stesso ha saputo sfruttarla per trasmettere al pubblico una precisa
immagine di sé.
Pasolini arriva a
patteggiare con il mercato letterario e con le grandi comunicazioni
di massa. Nel lungo iter della sua produzione intellettuale
un’importante fase di svolta è segnata, ad esempio, dall’inizio
dell’attività cinematografica. Questo non vuol dire che egli
manchi di analizzare criticamente e coscientemente la situazione
della cultura nella modernità capitalistica, ma è tuttavia
innegabile la sua capacità di sapersi meglio destreggiare con le
nuove tecnologie offerte dal progresso. L’ambiguità del suo
operato sta in un’aspra requisitoria contro il processo di
modernizzazione che è però contraddittoriamente fronteggiata da una
buona capacità di adeguamento alle nuove forme di espressione che
quella stessa modernità propone.
Pasolini accetta di
entrare nel complicato groviglio dei processi di produzione che
Fortini cerca così faticosamente di sciogliere e chiarire. Sebbene
sia lecito sostenere, in accordo con quest’ultimo, che il lavoro
cinematografico e il contatto con «l’universo parassitario» della
città di Roma abbiano trasmesso a Pasolini quel «senso di facile
onnipotenza che somministrano i milioni o i miliardi dei
produttori»25, facendogli dimenticare l’importante interrogativo
sui rapporti di produzione, lo stesso che Fortini si è posto in
merito all’editoria, non bisogna sottovalutare il fatto che il
ricorso al cinema è anche e soprattutto uno dei tanti aspetti che
hanno reso la figura intellettuale di Pasolini ancor più completa e
complessa.
Lo strumento
cinematografico non è, banalmente, il tacito consenso che Pasolini
dà alla modernità, ma un linguaggio attraverso il quale egli
arricchisce la sua figura di artista: “In breve: il sentire di non
poter più scrivere usando la tecnica del romanzo si è trasformato
subito in me, per una specie di autoterapia inconscia, nella voglia
di usare un’altra tecnica, ossia quella del cinema. L’importante
era non stare senza far niente o fare negativamente. Tra la mia
rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non
c’è stata soluzione di continuità. L’ho presa come un
cambiamento di tecnica. Ma era vero? Non si trattava piuttosto
dell’abbandono di una lingua per un’altra lingua? Dell’abbandono
della maledetta Italia per un’Italia almeno…transnazionale? Della
vecchia rabbiosa voglia di rinunciare alla cittadinanza italiana? Ma
in fondo non si trattava neanche di questo; no, non si trattava
neanche dell’adozione di un’altra lingua… Facendo il cinema io
vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto”.
Il cinema, dunque, come
«autoterapia inconscia». Una reazione agli sconvolgimenti della
modernità, non solo il complice sfruttamento di uno dei suoi
strumenti di comunicazione. Significativo è, infatti, il riferimento
all’Italia transnazionale, la stessa che veniva espressa, a suo
parere, dalle antiche culture sottoproletarie con le loro parlate
dialettali. Il cinema è, in un certo senso, uno strumento del mondo
moderno il cui linguaggio serve anche a ritrovare quell’essenza
transnazionale che un tempo era appartenuta all’universo
preborghese, anche se in una veste differente.
Nel saggio La fine
dell’avanguardia, risalente al 1966, Pasolini riflette sulla
funzionalità dello strumento cinematografico in relazione
all’esperienza avanguardistica. Tra le cause che hanno indotto la
fine dell’avanguardia Pasolini insiste sull’evidente incapacità
di quest’ultima di divincolarsi dall’ambito piccolo-borghese
risolvendosi, di fatto, in un implicito consenso al sistema. Il
cinema, invece, è il solo strumento di comunicazione che permette di
non rassegnarsi ad «essere fatalmente omologhi nella propria opera
alla società piccolo-borghese» dal momento che il suo linguaggio,
ossia la riproduzione audiovisiva del reale, è transnazionale,
dunque la sua struttura sociale corrispondente deve essere pensata
come l’intera umanità civile. Per questo il cinema, considerato
sotto tale aspetto, permette di superare l’errore commesso
dall’avanguardia che ha visto esaurire la sua effimera funzione
proprio perché ha fatto “orecchio da mercante” di fronte alla
necessità di odiare la condizione borghese per riuscire a superarla
e per potersi da essa riscattare.
Pasolini vuole dimostrare
che il cinema rappresenta una eccezione alle leggi dell’omologia
esposte da Goldmann in Sociologia del romanzo. Secondo tali
leggi esiste una diretta corrispondenza tra struttura romanzesca e
struttura sociale. Ebbene il cinema, linguaggio che riproduce la
realtà, non può possedere strutture strettamente omologhe a quelle
della società storica dove il film è stato prodotto. Questo perché
la riproduzione audiovisiva del reale è un linguaggio identico
ovunque, transnazionale appunto. Ecco perché le strutture della
lingua del cinema «prefigurano una possibile situazione
socio-linguistica di un mondo reso tendenzialmente unitario dalla
completa industrializzazione e dal conseguente livellamento
implicante la scomparsa delle tradizioni particolaristiche e
nazionali». Dunque il cinema come prefigurazione di una società
ormai completamente industrializzata. La sua transnazionalità non è
più quella genuina dell’antico universo contadino, ma quella che
riflette la piatta e alienante uniformità del mondo capitalistico.
Eppure non per questo il poeta di Casarsa rinuncia a saggiarne le
potenzialità.
Forse è proprio
nell’immediatezza viscerale con cui il Pasolini “antimoderno”
ha respinto l’avvento del neocapitalismo che è possibile ritrovare
una ragione della sua successiva compromissione nella nuova industria
delle telecomunicazioni. La requisitoria che non ammette mediazioni
ed è salda nelle sue posizioni estreme può forse cogliere in
anticipo, e senza dubbio con straordinario acume, le contraddizioni
del presente; tuttavia se poi viene meno la fase della dialettica
lucida e razionale, quella che non è mancata a Fortini e che svela
il volto e il «nome dei nemici», andrà essa stessa incontro alla
contraddizione e sarà inevitabilmente invertita di segno. Il rifiuto
senza compromesso del sistema si risolve, così, nel patteggiamento
con la modernità. L’immediatezza e l’urgenza della negazione
implicano il controsenso dell’accettazione.
3. È evidente che
dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo sperimentalismo
di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e di
adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli
strumenti intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il
potere economico che spesso li condiziona La “metacritica” di
Fortini, come giustamente l’ha definita Pier Vincenzo Mengaldo30,
non può, al contrario, riflettere sulla mutazione senza prima
interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò significa che
non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di pari
passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed
economico sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del
sapere e all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che
chiama in causa la realtà esterna, ma deve anche essere dotata di
uno sguardo introspettivo che la porti a farsi critica di se stessa e
consapevole delle proprie condizioni nel secolo della scienza e della
globalizzazione. Non si può ignorare il funzionamento dell’industria
culturale né tantomeno le dinamiche del mercato editoriale se
l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora
utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a
riconsiderare l’importanza della nozione gramsciana di
“organizzazione della cultura” e a capire il nesso tra sistema
economico e produzione culturale si nasconde uno dei messaggi più
attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel mondo
moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche
essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi
economici che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può
che avallare l’allora «perplessa richiesta di una critica della
produzione editoriale» avanzata da Fortini.
Dal sito del Centro Studi
Franco Fortini di Siena “L'ospite ingrato”
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