Tra i compagni di Segno
Critico capitava che i dibattiti politici degenerassero in
discussioni e che, fuori dal contesto, sembrassero liti. Accadeva non
solo nelle nostre sedi, prima quella di via della Sposa e poi quella
di via Raffaello, ma anche all'osteria "Aladino", dove
spesso le riunioni continuavano senza mai concludersi davvero. I più
accaniti credo che fossero Franco e Armando, ma quasi nessuno, se si
presentava l'occasione, si sottraeva ai confronti ad alta voce,
conditi di improperi.
Ricordo che una volta
discussi animatamente con Pino, profondo conoscitore del Vietnam e
della sua storia, autore di una biografia di Ho Chi Minh. Gli capitò
di dire che Mao era un sorta di Confucio del XX secolo e io, di
solito non incline a trascendere e molto rispettoso verso di lui,
saltai in aria. Non ricordo esattamente cosa dissi, ma lui ci restò
male.
In ogni caso c'era stato
- come talora capita - un fraintendimento.
Pino, quando faceva il
paragone, si riferiva allo linguaggio formulare, al ricorso alle
parabole, insomma allo stile letterario delle opere di Mao. Io mi
riferivo ai contenuti e fortemente contrapponevo l'antico predicatore
dell'ordine sociale e dell'obbedienza al rivoluzionario che, al
potere, incessantemente ricordava che "ribellarsi è giusto",
indicando come bersaglio da bombardare lo stesso quartiere generale.
Convinsi Pino (ma forse
era già convinto) che tutta la vita di Mao, fin dagli anni in cui da
maestro progettava nuove scuole, e non solo l'opera sua, era stata la
negazione del confucianesimo, ideologia ufficiale del mandarinato.
Per questo – concordavamo - non venne mai considerato, finché
visse, un “vecchio saggio” come Confucio e i filosofi che ne
seguirono le orme; lo chiamavano piuttosto “il vecchio matto” - i
suoi, non i nemici e gli avversari – e lui non se dispiaceva
affatto.
Eppure qualcosa di
Confucio – qui era Pino ad aver ragione - c'era in Mao, nel suo
proporsi come immagine esemplare, nel pensare alla sua opera come a
un repertorio di massime e di precetti che sarebbero durati nel
tempo, da citare secondo il bisogno.
Mao era insomma
l'Anticonfucio.
Non stupisce che nella
Cina attuale (paese di cui è facile vedere uno sviluppo economico
che appare prodigioso, meno facile leggere le contraddizioni
fortissime e in prospettiva feconde di lotte e di cambiamenti) il
recupero del confucianesimo come ideologia di una classe dirigente
che si propone stabilità politica e “armonia sociale” si
accompagni ad una presenza permanente dell'immagine del Grande
Timoniere che si concepiva come il suo opposto.
Per Mao erano la
contraddizione e il conflitto la chiave della storia, l'essenza della
vita. Ci teneva a dirlo che dove non c'è contraddizione c'è
stagnazione e, alla fine, morte. Il comunismo cui aspirava – lo
ripeteva tutte le volte che gli capitava – non era la società
perfetta e pacificata che qualcuno andava raccontando, una specie di
paradiso in terra, ma era certo che cessato il conflitto tra classi
sociali antagoniste, altre contraddizioni ne avrebbero preso il posto
nel campo politico, artistico, scientifico, meno distruttive ma non
meno acute e non meno produttive di conquiste civili e scientifiche.
In questo la pensava
esattamente come Marx che immaginava il comunismo non come la fine
della storia, ma come il suo vero inizio. Tutta una storia nuova da
costruire e da scrivere.
stato fb, 5 gennaio 2016
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