Un carico di cocaina proveniente dal Sud America sequestrato alla 'ndrangheta |
Sono sempre “i
calabresi” a dettare i tempi del narcotraffico, a disegnare le
rotte – vecchie e nuove – dei carichi di droga. Dal Sud America
all’Italia, la coca viaggia sugli aerei Falcon, sulle motonavi, sui
container dei cargo. I trafficanti parlano attraverso telefoni
satellitari come manager del petrolio, ma i milioni di euro finiscono
sotto terra come trent’anni fa. Il Gico ha scovato 4 milioni di
euro in contanti: coperti, un metro sotto i pomodori nelle ville dei
broker del Torinese, nascosti dentro le giare d’acciaio utilizzate
per stipare l’olio d’oliva e destinati a finanziare i carichi.
L’indagine – firmata
dal Gico della Guardia di Finanza e coordinata dalla Dda di Torino
(pm Arnaldi di Balme ed Enrico Gabetta) – è iniziata a dicembre
2013 ed è durata oltre un anno, portando all’arresto di dodici
persone.
Nonostante nei capi
d’accusa non compaiano il 416 bis né aggravanti mafiose,
l’operazione ha scoperchiato una gigantesca holding della
cocaina, che riforniva quasi esclusivamente le locali di ’ndrangheta
di Piemonte, Lombardia e Calabria. Il gip Federica Bompieri, che ha
firmato le custodie cautelari, ha scritto che “la quantità di
stupefacente (cocaina) movimentato, l’entità dei proventi
economici e il livello tecnico ed informatico delle contromisure
adottate per aggirare le indagini, pongono l’associazione ai
massimi livelli del panorama criminale del settore”.
L’erede di
Pasquale Marando.
Ai massimi livelli –
per riprendere l’affermazione del gip – perché questo era il
tenore e lo spessore dei personaggi che avevano messo in piedi questo
traffico di droga. In testa, Nicola Assisi (e i suoi figli), nato a
Grimaldi, Cosenza, 57 anni, residente a San Giusto Canavese, agli
atti latitante. Assisi è personaggio di assoluto rilievo nel
panorama del traffico di droga e non da ora. Si era fatto conoscere
– facendosi un nome di provata credibilità – negli anni Novanta,
un periodo difficile per tutti quelli che, nel nord Ovest italiano,
non si chiamavano Marando e Trimboli, dinastia lineare di droga e
’ndrangheta, arrivata da Platì a Volpiano, che aveva colonizzato
le rotte del narcotraffico grazie a Pasquale Marando, superboss
ucciso nel 2002 (è un caso di lupara bianca), di stanza a Leinì,
frazione Tedeschi.
In quegli anni, la drugs
list di Marando, fotografata dalle indagini Igres, Sant’Ambrogio
e Riace, era terrificante: una sfilza di nomi che non aveva eguali
nel panorama mondiale delle rotte di droga. Da Jorge Pinhol, 67 anni,
esperto mediatore nei traffici d’armi, stupefacenti e tecnologie,
ex collaboratore dei servizi segreti israeliani Mossad e del Kgb, ad
Aristidies Papachatzpoulos, greco di Larissa, ex colonnello
dell’esercito ellenico, trafficante di armi e droga, fino ancora a
Paul Edouard Waridel, nato a Istanbul, 66 anni, socio del trafficante
turco Karadurmus Avni Yasar, alias Mussullulu, già fornitore delle
famiglie siciliane di Cosa nostra, condannato a 13 anni nel processo
Pizza Connection in cui era accusato di aver introdotto in Europa 400
kg di morfina base. Infine, Roberto e Alessandro Pannunzi, padre e
figlio: broker in grado di garantire carichi di tonnellate di coca e
imparentati con i Marando per via di un battesimo.
In questo periodo Nicola
Assisi, che appartiene all’altra cordata di narcotrafficanti – i
‘Gioiosani’ che affiancano i platioti e non creano tensioni
semmai parallelismi – si fa conoscere come luogotenente di Rocco
Piscioneri, altro superboss del narcotraffico sempre in viaggio tra
Torino, Olanda e Spagna, tallonato dalla Dia. Il nome salta fuori
nell’operazione antidroga Elianto nella quale finiscono in carcere
anche membri della famiglia Belfiore (sempre di stanza a Torino).
Assisi finì in manette allora.
Nel 2000 il tribunale di
Torino lo condannò a 14 anni e 4 mesi per droga. La sentenza divenne
definitiva il 6 novembre del 2007: associazione a delinquere
finalizzata al traffico di stupefacenti. Poco dopo, di Assisi, si
perdono le tracce. È latitante all’estero. In Italia intanto la
procura gli confisca la villa di san Giusto dove vivono la moglie e i
due figli maschi, ancora troppo giovani: Patrick e Pasquale Michael.
Sono ancora lì, nonostante il decreto decisorio della Corte di
Cassazione contro il quale i legali della famiglia hanno avviato un
iter di revisione della misura patrimoniale.
È durante questo periodo
che Assisi fa il salto di qualità nei rapporti con i fornitori oltre
confine. Stabilendosi all’estero stringe – secondo la procura –
relazioni invidiabili, soprattutto in Brasile, diventando di fatto
uno dei numeri uno del narcotraffico mondiale. Nel 2013 i figli
Patrick e Pasquale Michael sono abbastanza adulti per essere
coinvolti nell’impero di droga, ma vengono arrestati
rispettivamente in Brasile, a luglio, con 60 kg di cocaina e a
Valencia, in ottobre, con trenta chili.
Luglio 2014. Mentre il
Goa (Gruppo operativo antidroga) lavora su questo gigantesco traffico
di polvere bianca, riesce a localizzare anche il superboss della
droga Nicola. È in Portogallo, all’aeroporto. Sta scendendo le
scalette di un aereo che arriva da Santos, Brasile. I finanzieri non
vogliono scoprire le carte dell’inchiesta in corso e così è la
polizia portoghese a mettere le manette ai polsi di Assisi. La
Procura chiede invano l’estradizione in Italia dove per Nicola si
aprirebbero le porte del carcere, per 14 anni. I giudici non
ritengono, in primo grado, di spedire in Italia il detenuto e lo
mettono ai domiciliari. Quando la corte d’Appello lusitana si
decide che è ora di affidarlo alla nostra giustizia, lui è già
latitante.
Il fiume di cocaina
nella chat di Messenger
Ai massimi livelli –
tornando a quanto scritto dal gip – perché abbastanza grossi e
continui erano i carichi che arrivavano in Italia con destinazione
Piemonte e Lombardia. I finanzieri ne hanno certificati e
intercettati almeno cinque, tutti di questa entità: 141 kg, 120 kg,
88 kg, 208 kg, 102 kg. La droga partiva dal Perù e dal Brasile; non
tutti sono finiti al comando provinciale di Torino in attesa di
essere bruciati, anzi. Lo stesso gip lo segnala nell’ordinanza di
arresto: “Per la frequenza delle condotte, a volte in
sovrapposizione le une sulle altre, non è azzardato, addirittura,
ritenere che la chiusura del monitoraggio (pochi mesi fa, n.d.r.) non
abbia coinciso affatto con la cessazione delle condotte” e quindi
delle spedizioni.
Chissà poi quanti ne
aveva mandati prima la squadra di Assisi che per dialogare a distanza
dispersa nei continenti del mappamondo utilizzava una chat di
BlackBerry Messenger. I nickname scelti dai corrieri e dai grossisti
sembrano usciti da una saga a base di calcio, ciclismo e Formula Uno:
Alboreto, Senna, Gimondi, Careca, Bartali, Bugno, Coppi finanche
l’indimenticabile pugile Primo Carnera. Quando il Goa è riuscito a
dare un nome e cognome a questi miti dello sport, ha trovato la
password per intercettare i carichi, tutti spediti con destinazione
Gioia Tauro. E tutti comunicati con un sofisticato codice alfa
numerico che veniva dettato poche ore prima dello sbarco. In questa
storia, tutti avevano un ruolo. E uno dei più importanti era quello
di Antonio Agresta, 54 anni, nato a Platì, residente a Volpiano. Il
gip annota: “Promotore, direttore, organizzatore e finanziatore,
agiva in piena sintonia con gli Assisi nella gestione del traffico
indicato, investendo insieme a loro, condividendo le scelte operative
e le decisioni su acquisti e prezzi, dividendo in modo paritario gli
utili nonché tenendo i contatti con gli acquirenti calabresi
operanti in Calabria, Lombardia e Piemonte”. Leggasi: Francesco
Trimboli, Giuseppe Perre e Pasquale Perre. Agresta era l’ala più
torinese dell’organizzazione: al netto di una condanna dal
Tribunale dei minori di Torino per due rapine e violenza sessuale in
concorso, è stato nuovamente condannato nel 1996 (sentenza
irrevocabile dal 18 giugno 1997) a 22 anni di reclusione per
associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; nel 2012 ha
patteggiato la pena di un anno e otto mesi di reclusione (in
continuazione) per associazione a delinquere di stampo mafioso nel
processo scaturito dall’operazione Minotauro.
I soldi che arrivano
dalla vendita dei quintali di cocaina si contano – “e si
stoccano”, recita l’ordinanza – in un anonimo distributore di
carburante di Leinì di proprietà di Antonio Perre, 39 anni, nato a
Cuorgnè. A fare da becchini, sotterrandolo nei giardini delle case
in uso ai boss, ci pensano la moglie di Assisi, Rosalia Falletta e un
altro compare di Assisi, Doriano Storino di San Marco Argentano.
Il “Porco” al
porto di Gioia Tauro.
Per gestire questi flussi
di stupefacenti, gli Assisi e gli Agresta avevano – of course –
anche uomini in Calabria. In particolare uno che si occupava
dell’arrivo e del ritiro dei carichi al porto di Gioia Tauro:
Rosario Grasso, 33 anni, nato a Gioia, residente a Rosarno il quale,
scrive il giudice delle indagini preliminari, “operando in Calabria
garantiva lo scarico, il recupero ed il trasporto – anche con la
collaborazione di correi allo stato non ancora identificati, tra i
quali un soggetto indicato quale ‘Il Porco’ facente parte delle
forze di polizia o comunque del personale del porto – fuori
dall’area doganale della cocaina occultata nei container sbarcati a
Gioia”.
Il ‘Porco’ è la
talpa dei trafficanti. I corrieri addetti allo sbarco lo chiamano
sempre prima dell’arrivo dei carichi. Lui ha accesso con largo
anticipo – e questo emerge con chiarezza dagli atti – al
cervellone che annota le navi in transito, in sosta, in entrata e in
uscita dalle banchine. Nel caso di uno degli ultimi carichi che
l’organizzazione aspettava a Gioia (senza sapere che era stato già
requisito a Valencia in una temporanea sosta del cargo) comunica
all’organizzazione dove è stato depositato il container. I sodali
lo rubano con un gancio a traino e lo conducono in un’area franca
del porto per sfuggire ai controlli delle forze di polizia. Lo
aprono, non trovano la droga, i nervi saltano e volano parole grosse.
Per tutti, tranne che per il ‘Porco’, “che si sta esponendo
troppo, qui se ne accorgono, non può fare sempre queste cose per
noi, altrimenti viene scoperto”. È il 5 settembre del 2014, data
di arrivo di uno degli ultimi carichi intercettati dal Goa.
L’indagine non è finita.
Da “narcomafie”, novembre 2015
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