Trovo in rete questo
testo di Domenico Losurdo, con un passato illustre di accademico,
autore negli ultimi anni di libri importanti su questioni cruciali,
da Stalin alla lotta di classe alla non violenza, oggi presidente
dell'associazione politico-culturale “MARX XXI”. Si tratta della
relazione presentata a un convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015,
dal titolo La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008.
Nonostante
una maliziosa citazione del Grande Timoniere, l'impianto del discorso
di Losurdo è rigorosamente antimaoista e sostanzialmente stalinista.
Ho molte ragioni di dissenso da questa lettura che si traduce in una
apologia della Cina di oggi, cui si attribuisce il carattere di
società postcapitalistica che sta costruendo il socialismo guidata
dal partito comunista e insidiata dal capitalismo mondiale e da una
borghesia autoctona forte, ma a tutt'oggi priva di potere politico.
Non intendo parlarne qui, è tema assai complesso. Accenno solo a un
nodo, a mio avviso centrale: la democrazia di base, l'iniziativa
delle masse, operaie in primo luogo, una trasformazione che non
riguardi solo i rapporti di proprietà e di produzione, ma i rapporti
di potere; insomma quel complesso di tematiche su cui Mao,
soprattutto nella Rivoluzione culturale, fornisce al marxismo del
ventesimo secolo – non senza contraddizioni – un apporto
originale e, a mio avviso, attuale. (S.L.L.)
Ai giorni nostri è un
luogo comune parlare di restaurazione del capitalismo a proposito
della Cina scaturita dalle riforme di Deng Xiaoping. Ma su che cosa
si fonda tale giudizio? C’è una visione più o meno coerente di
socialismo che si possa contrapporre alla realtà dei rapporti
economico-sociali vigenti nella Cina odierna? Diamo un rapido sguardo
alla storia dei tentativi di costruzione di una società
postcapitalistica. Se analizziamo i primi 15 anni di vita della
Russia sovietica, vediamo susseguirsi rapidamente il comunismo di
guerra, la NEP e la collettivizzazione integrale dell’economia
(compresa l’agricoltura). Ecco tre esperimenti tra loro ben
diversi, ma tutti e tre caratterizzati dal tentativo di costruire una
società post-capitalista! Perché mai dovremmo scandalizzarci per il
fatto che, nel corso degli oltre ottanta anni che hanno fatto seguito
a tali esperimenti, ne siano emersi altri, ad esempio il socialismo
di mercato e dalle caratteristiche cinesi?
Concentriamoci per ora
sulla Russia sovietica: quale dei tre esperimenti appena visti si
avvicina di più al socialismo teorizzato da Marx ed Engels? Il
comunismo di guerra viene così salutato da un fervente cattolico
francese, Pierre Pascal, in quel momento a Mosca: «Spettacolo unico
e inebriante […] I ricchi non ci sono più: solo poveri e
poverissimi […] Alti e bassi salari s’accostano. Il diritto di
proprietà è ridotto agli effetti personali». Questo populismo, che
individua nella miseria o nella penuria il luogo dell’eccellenza
morale e condanna la ricchezza come peccato, è criticato con grande
precisione dal Manifesto del partito comunista: non c’è
«nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di
vernice socialista»; i «primi moti del proletariato» sono spesso
caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo
universale e un rozzo egualitarismo» (MEW, 4; 484 e 489).
Al comunismo di guerra
subentra pochi anni dopo la NEP che sviluppa le forze produttive e
combatte la miseria di massa, ma al tempo stesso tollera una
ristretta area di economia capitalistica e introduce vistosi elementi
di diseguaglianza: indignati, migliaia di operai bolscevichi
strappano la tessera del partito. In Russia e fuori, persino tra i
dirigenti comunisti trova spazio un atteggiamento, così deriso da
Lenin: «Vedendo che ci ritiravamo, alcuni di essi sparsero,
puerilmente e vergognosamente, persino delle lacrime, come avvenne
all’ultima seduta allargata del Comitato esecutivo
dell’Internazionale comunista. Animati dai migliori sentimenti
comunisti e dalle più ardenti aspirazioni comuniste, alcuni compagni
scoppiarono in lacrime» (LO, 33; 254-55). È soprattutto il
crescente pericolo di guerra a provocare l’abbandono della NEP e la
cancellazione di ogni traccia di economia privata. Dopo un tragico
periodo di guerra civile nelle campagne, l’economia sembra
procedere nel migliore dei modi: al rapido sviluppo delle forze
produttive s’intreccia l’edificazione di uno Stato sociale senza
precedenti nella storia. In realtà, con il passaggio dalla grande
crisi storica a un periodo più «normale» (la «coesistenza
pacifica») si affievoliscono e poi dileguano l’entusiasmo e
l’impegno di massa nella produzione. Negli ultimi anni della sua
esistenza l’Unione Sovietica è caratterizzata dall’assenteismo e
dal disimpegno di massa sui luoghi di lavoro: non solo ristagna lo
sviluppo produttivo, ma non trova più alcuna applicazione il
principio che secondo Marx dovrebbe presiedere al socialismo (la
retribuzione a seconda della quantità e qualità del lavoro
erogato).
Diverso è il quadro che
presenta la Cina. Nel 1949 il Partito comunista cinese conquista il
potere a livello nazionale, dopo aver però cominciato già vent’anni
prima a esercitarlo in questa o quella regione, una regione la cui
estensione e la cui popolazione sono paragonabili a quelle di un
paese europeo di media grandezza. Per buona parte di questi 85 anni
di gestione del potere, la Cina, in parte o globalmente governata dai
comunisti, è caratterizzata dalla compresenza di economia statale,
economia pubblica ma non statale, economia cooperativa, economia
privata: è così che la descrive alla fine degli anni ’30 Edgar
Snow. A Yenan – osserva uno storico dei giorni nostri (Rana Mitter)
– il partito comunista «esercita la supervisione su un’economia
privata di significative proporzioni, che include proprietà terriere
private di larghe dimensioni». La compresenza di diverse forme di
proprietà non cessa dopo il 1949, anzi viene esplicitamente
teorizzata da Mao in un discorso del 18 gennaio 1957, che distingue
tra «espropriazione politica» ed «espropriazione economica»: la
borghesia doveva essere espropriata sino in fondo del suo «capitale
politico», della considerevole influenza politica da essa
esercitata; il capitale economico, invece, non doveva essere oggetto
di espropriazione totale, almeno sino a quando poteva servire allo
sviluppo dell’economia nazionale e quindi, indirettamente, alla
causa del socialismo.
È una linea politica che
cade in crisi con il Grande balzo in avanti del 1958-59 e la
Rivoluzione culturale scatenata nel 1966. Gli ultimi anni della Cina
maoista non si distinguono molto dagli ultimi anni di vita
dell’Unione Sovietica. In mancanza di incentivi materiali, i
tentativi di rilanciare la produzione mediante gli appelli alla
mobilitazione e all’entusiasmo di massa non producono più alcun
risultato: alla liquidazione sostanziale del principio socialista
della retribuzione in base al lavoro erogato fa seguito il ristagno
produttivo; mentre non mancano coloro (la cosiddetta Banda dei
quattro) che cercano di trasfigurare tutto ciò agitando il
motivo populista del socialismo povero ma bello.
Il populismo diviene poi
il bersaglio della polemica di Deng Xiaoping. È rimasto celebre il
suo detto: «diventare ricchi è glorioso!». Ma forse, per
comprenderlo adeguatamente, occorre collegarlo con un altro detto che
meriterebbe di essere non meno famoso: «diventare ricchi non è un
peccato!». Si tratta in altre parole di farla finita con
l’«ascetismo universale» e il «rozzo egualitarismo» denunciati
già dal Manifesto del partito comunista. Deng Xiaoping ha
avuto il merito storico di comprendere che il socialismo non ha nulla
a che fare con la ripartizione più o meno egualitaria della miseria
e della penuria; agli occhi di Marx ed Engels il socialismo è
superiore al capitalismo non solo perché garantisce una più equa
ripartizione delle risorse, ma anche e soprattutto perché assicura
uno sviluppo molto più rapido e più largo della ricchezza sociale;
ed è per conseguire questo obiettivo che il socialismo è regolato
dal principio della retribuzione secondo il lavoro erogato.
Le riforme introdotte da
Deng Xiaoping hanno stimolato un miracolo economico senza precedenti
nella storia, con la liberazione dalla miseria di centinaia e
centinaia di milioni di persone. Si sono al tempo stesso inasprite le
diseguaglianze? In realtà, a livello internazionale si sta riducendo
la «grande divergenza», il distacco economico e tecnologico
detenuto dall’Occidente sul resto del mondo. E per quanto riguarda
il rapporto all’interno del grande paese asiatico? Sia la NEP
sovietica sia il nuovo corso cinese sono stati preceduti da crisi
devastanti che hanno comportato anche la morte per inedia su larga
scala.
Allorché la miseria
raggiunge un certo livello, essa può comportare il pericolo della
morte per inedia. In tal caso, il pezzo di pane che garantisce ai più
fortunati la sopravvivenza, per modesto e ridotto che esso sia,
sancisce pur sempre una diseguaglianza assoluta, la diseguaglianza
assoluta che sussiste tra la vita e la morte. E cioè, allorché la
miseria diventa disperata e di massa, lo steso problema
dell’eguaglianza può essere risolto solo mettendo l’accento
sullo sviluppo delle forze produttive.
Il bilancio positivo fin
qui tracciato non ci deve far perdere di vista le sfide. La campagna
per la «democratizzazione» della Cina (nei tempi e nei modi dettati
da Washington e Bruxelles) è in realtà una campagna per mettere
fine all’«espropriazione politica» della borghesia cinese e
consentirle di conquistare il potere politico (che per ora non
detiene in alcun modo). Se, come osservano molti analisti, oggi in
Occidente il potere della ricchezza è tale che si può parlare di
avvento della «plutocrazia», dobbiamo concludere che la campagna in
corso per la democratizzazione della Cina è una campagna per la sua
plutocratizzazione. Una seconda campagna, condotta sempre da
Washington e Bruxelles, esige la sostanziale liquidazione del settore
statale dell’economia che un ruolo così importante svolge nella
lotta contro le due grandi divergenze: sul piano internazionale tale
settore promuove lo sviluppo tecnologico della Cina, che sempre più
riduce il suo distacco rispetto ai paesi più avanzati; sul piano
interno, esso accelera lo sviluppo delle regioni meno avanzate del
grande paese asiatico, che ora non poche volte crescono a un ritmo
più accelerato delle regioni costiere. Se questa seconda campagna
dovesse aver successo, sarebbe liquidata l’«espropriazione
economica» della borghesia, che di nuovo vedrebbe spianata la strada
per la conquista del potere politico. Sono chiare le armi con le
quali si sviluppa la lotta contro il paese scaturito dalla più
grande rivoluzione anticoloniale della storia, impegnato in un
processo di lunga durata di costruzione di una società
post-capitalistica. Come si schiererà la sinistra occidentale?
Dal sito
dell’Associazione politico-culturale “Marx XXI”
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