Non so se fosse
inevitabile in un articolo come quello che segue l'uso di termini
inglesi. Forse no, forse si poteva trovare una parola o una locuzione
italiana per esprimere quei concetti. Ma così non è stato e dovremo
farcene una ragione. Bisognerà che noi vecchi ampliamo il nostro
vocabolario a un buon numero di neologismi, anglismi ed angloacronimi
soprattutto, indispensabili per intendere chi parla di nuove
tecnologie e di organizzazione della ricerca scientifica e
tecnologica.
Un articolo come quello
che segue è infatti, nella sua linea fondamentale, di facile
comprensione e chi lo ha scritto ha di sicuro eccellenti capacità di
comunicazione. Se noi qua e là ci perdiamo negli hub e
nei wet è perché
siamo ignoranti. Ma, come diceva Celeste Negarville, è l'istruzione
ad essere obbligatoria, l'ignoranza è facoltativa. (S.L.L.)
Il genome editing è
così facile da usare e relativamente poco costoso che ormai non solo
i laboratori di università, centri di ricerca e industrie si stanno
attrezzando per usarlo. In un recente articolo, la rivista
scientifica “Nature” si sofferma sulla diffusione
pervasiva della tecnica per modificare il genoma anche in contesti
non accademici, come i gruppi di appassionati di biologia e delle
scienze della vita. Persone non necessariamente formate in questo
settore che si dedicano a esperimenti scientifici fai-da-te di
ingegneria genetica. Si parla infatti di Do-It-Yourself-Biology
(Diybio), biologia fai da te, nome coniato da uno dei primi
collettivi, nato nell’area di Boston nel 2008, dove si trovano due
tra le più innovative università al mondo, il Massachusetts
Institute of Technology (Mit) e Harvard.
In poco tempo, sotto la
direzione di una sorta di coordinamento virtuale tramite un sito e un
blog in rete, sono nati numerosi hub anche fuori dagli Stati Uniti.
Ogni gruppo locale si dedica a esperimenti diversi, spesso
utilizzando solo genomi semplici e cellule batteriche, attrezzature
che a volte derivano da svendite su eBay di laboratori in disuso e
luoghi pubblici o condivisi come luoghi d’incontro.
Nei primi anni in cui il
fenomeno era ancora poco diffuso e riconosciuto, cantine e garage
privati erano i luoghi di incontro di amatori e curiosi di poter
sperimentare con il materiale vivente, tanto che l’auto-definizione
di garage scientists aveva subito destato interesse, ma anche
sospetto. Fin dalla sua nascita la Diyibio ha infatti
sollevato diverse preoccupazioni relative alla manipolazione di
materia biologica da parte di persone non esperte, come il rilascio
accidentale o incontrollato di materiale potenzialmente nocivo per
ambiente, animali ed esseri umani. La biosicurezza è però un
argomento fortemente presidiato dalla comunità dei biotech
amatoriali: sul sito è prevista una larga sezione sui comportamenti
da adottare e c’è anche la possibilità di consultare un esperto
su problematiche particolari. Inoltre il report Myths &
Realities of the Diybio Movement, pubblicato a fine 2013 dal
Woodrow Wilson International Center for Scholars di
Washington, ha dimostrato che la maggior parte dei partecipanti
spesso sono studenti universitari o ricercatori in altre discipline,
oppure biotecnologi, con una certa dimestichezza con le regole della
ricerca e della biosicurezza.
Ricadono nel caso
paradigmatico dei biotecnologi che popolano i community lab
anche i membri dell’associazione trentina Open Wet Lab,
ospitata dal Muse di Trento, uno dei due soli hub italiani.
Sono infatti tutti giovani studenti e ricercatori in biotecnologie,
tra i 20 e i 26 anni, «con la voglia di raccontare la passione per
la scienza attraverso esperimenti in cui il pubblico, di ogni età, è
il protagonista», racconta il team di Trento a pagina99. Per ora per
loro non c’è possibilità di imbarcarsi in esperimenti che
prevedano l’uso del genome editing, «perché richiede un continuo
monitoraggio delle cellule modificate nel loro Dna», che oggi il
gruppo trentino non può gestire in termini di tempo, spiegano
all’Open Wet Lab.
Il timore più grande
legato alle biotecnologie fai da te è però la creazione ad hoc di
armi biologiche a scopo terroristico. Dopo anni in cui l’Fbi
controllava assiduamente il movimento sul territorio statunitense,
anche partecipando agli incontri locali, ora sembra che la stretta si
sia allentata. «Ormai in Nord America il bioterrorismo non viene più
citato quando si parla di Diybio. Sappiamo che si tratta di un falso
problema per diversi motivi», puntualizza a pagina99 Alessandro
Delfanti, assistant professor di Cultura e nuovi media presso
l’Università di Toronto e autore del libro Biohacker. Scienza
aperta e società dell’informazione (Eleuthera Edizioni).
«Primo, questi gruppi sono interessati a problemi come produrre
funghi commestibili, testare il proprio Dna, o effettuare
modificazioni genetiche a scopo ludico o commerciale. Secondo,
lavorano in maniera assolutamente trasparente, sia perché operano in
laboratori aperti a tutti e solitamente in open source.
Chiunque può vedere quello che stanno facendo. Si tratta quindi di
gruppi che si preoccupano di rendere la biologia più aperta e
partecipata».
Proprio questo è uno
degli scopi dell’altro gruppo italiano affiliato alla casa madre
americana, i BeinTo. Nati da un’idea durante un workshop
sulle biotecnologie nel FabLab di Torino, che ancora li ospita, i
BeinTo per ora puntano ad auto-produrre attrezzatura di
laboratorio open source che poi, in una seconda fase, possa
essere usata nei veri e propri esperimenti “wet”, quelli
in cui si lavora con Dna e materiale biologico. «Complice l’ambiente
in cui siamo nati, tra i maker, puntiamo innanzitutto alla produzione
di macchinari low cost che noi e altri gruppi Diybio possiamo
usare», ci spiega Irio Lavagno, informatico elettronico, e ora
biotecnologo fai-da-te a Torino. «Abbiamo già prodotto
un’attrezzatura per lavorare coi batteri, disponibile in open
source. Il prossimo obiettivo è realizzare un microscopio»,
continua Lavagno. La filosofia di apertura e democratizzazione della
scienza è uno dei caratteri salienti della Diybio, tanto che spesso
gli attivisti – tra cui due gruppi italiani nei loro siti e pagine
Facebook – si auto-definiscono anche biohacker. «Non è un caso»,
conclude Delfanti, «questi gruppi sono affascinati dalla storia
delle comunità hacker e spesso c’è un legame culturale diretto.
Si tratta dello stesso sogno, quello di una tecnologia personale e
non sottomessa al controllo di grandi aziende o istituzioni. Oggi
alcuni gruppi di hacker, come i militanti di Anonymous, dimostrano
che la rete fornisce agli outsider un potere enorme di intervento
all’interno delle nostre società: i biohacker vorrebbero che lo
stesso fosse possibile per le tecnologie legate alla vita».
Pagina 99, 19 dicembre
2015
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