Erano appena i primi anni
’90, e alcuni di noi si posero una domanda: ma queste persone che
arrivano ora da tante altre parti del mondo, stanno raccontando,
stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato qualche incontro,
qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità paragonabili ma
con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era nata una
letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che per
mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente “letteratura
afroitaliana”: persone non nate in Italia, o da famiglie non native
italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in
Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti
dell’università che rifiutarono di accettare questi scritti come
letteratura italiana (al massimo, “letterature comparate”);
l’industria editoriale che da questi scrittori – come per quasi
un secolo era successo agli afroamericani - si aspettava solo
documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia), ma non gli
riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la capacità
di metterla in parole. Inutile ripetere che il tempo ha dimostrato
che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è arrivata a
piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio
tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia
contemporanea. Sottolineo Italia: perché quella che con un termine
non necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo “letteratura
migrante” è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi
il nostro condiviso e molteplice paese. Se la storia dell’Italia,
se le radici dell’Europa sono in gran parte il colonialismo e le
guerre portate nel resto del mondo, allora le memorie degli eritrei o
dei curdi che oggi abitano l’Italia diventano a pieno titolo
memoria di tutti. Per esempio, è memoria dell’Italia quella dà il
titolo e il nome della protagonista ad Adua, il recente
romanzo di Igiaba Scego: la prima sconfitta militare subita da un
paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha mostrato
la stessa Igiaba Scego in un altro utilissimo libro (Roma negata,
Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle
strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del
passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal
fascismo, trascurato e quindi tollerato dall’Italia democratica, e
almeno in parte costruito proprio attorno alla non dichiarata
intenzione di cancellare la memoria di quell’umiliazione
originaria. Solo che adesso Adua è presente nelle stesse strade e
negli stessi quartieri anche con un’altra connotazione e un altro
punto di vista: quello degli italiani e dei migranti per i quali è
una memoria (peraltro, come mostra il romanzo, ambigua e complessa)
di dignità e orgoglio.
Forse l’unico modo per
elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una
memoria che, proprio perché è una memoria di guerra, non può
essere che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa.
Come altri testi recenti (penso a Il comandante del fiume di
Cristina Ali Farah, a Regina di fiori e di perle di Gabriella
Ghermandi), Adua è il prodotto di questa stagione di matura
autoconsapevolezza di questa nuova letteratura italiana. E’ un
romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta in mente la categoria di
“opera mondo” elaborata da Franco Moretti a proposito di opere
canoniche della letteratura “occidentale”, dal Faust a
Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile
impresa di fare entrare in mondo intero in un solo testo, che
naturalmente falliscono, ma che proprio nelle loro imperfezioni
recano il segno della loro grandezza. Adua non si misura con il mondo
intero, ma certamente ha il coraggio di cercare di mettere in un solo
testo tutta la storia di un pezzo di mondo, quella di un’Italia
della cui storia fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e
le loro memorie. La protagonista la racconta all’unico
interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie, di
ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra
presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da
un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema
nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo
sfruttamento sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli
anni ’70 (con un’appendice scopertamente berlusconica un po’
tirata per i capelli ma utile a portare la storia fino a noi),
all’affetto e conflitto anche generazionale fra la prima diaspora
postcoloniale e l'immigrazione recente (rispettivamente e
spietatamente, nei relativi gerghi, “vecchie lire” e “Titanic").
Questa storia si intreccia con quelle del padre della protagonista,
Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le relazioni
generazionali (le “paternali”, i monologhi in discorso indiretto
libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite godibili
del libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra
colonizzati e colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento
dell’oppresso si intrecciano con la subalternità e magari anche
con l’opportunismo della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il
nome di una vittoriosa battaglia anticoloniale ma poi coi
colonizzatori (e quindi con la tua coscienza) sei per forza costretto
convivere, adattarti e servire. Il padre di Adua nel romanzo si
chiama Zoppe. Anche nella forma “Zoope”, è un nome abbastanza
diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel discorso italiano, le
connotazioni diventano altre, e a me suggerisce irresistibilmente il
più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica – Edipo. Come
ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da Edipo a
Cenerentola la zoppia - rottura della simmetria costitutiva del corpo
umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine
cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione
intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e
la iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte
mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come
Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace
di evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri (cosa che aiuta
Scego a far entrare nel libro anche tempi che sarebbero fuori del suo
orizzonte cronologico); e di mestiere fa il traduttore, la più
complicata di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le
lingue non si capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il
proverbio: Zoppe dà ai colonizzatori accesso alle parole dei
colonizzati, e in gran parte rinuncia alla propria – non racconterà
mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo avvelena (grazia alla
sua capacità visionaria, e all’incontro con una bambina e una
famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: anche qui, un po’
forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e razzismo
coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione di
opera-mondo del libro). Il romanzo ci conclude in piazza dei
Cinquecento. Nessuno ci pensa o lo sa: è un’altra memoria ambigua
un po’ vergognosa e un po’ dimenticata. Proprio Igiaba Scego ci
ha ricordato che prende il nome dei “cinquecento” italiani periti
in un altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea,
nel 1897. Se uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto
“eroico” dei prodi italiani che soccombono a soverchianti forze
africane – armate peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di
lance. Se uno la pensa dentro la memoria di quelli che difendevano il
loro paese da un’arrogante invasione straniera, è impossibile non
stare dalla loro parte, contro una parte di “noi italiani”
stessi. Se non la ricordiamo, è perché è vergognosa da due lati:
da quello eroico-guerresco, perché è una sconfitta; e da quello
civile, perché è parte di un’incivile storia di aggressione
coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da Ahmed, il
giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e affetto
al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie
lo “strano turbante” fatto con la stoffa blu ereditata da suo
padre, e scopre che può liberarsi del peso e del marchio della sua
memoria. Come dono d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo
essere stata filmata come oggetto da sfruttare, adesso finalmente
potrà dare forma all’immagine che ha di se stessa. Per chi si
libera dell’oppressivo turbante blu di una storia che ti grava
addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la piazza della
stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di partenze, e
di nuovi inizi.
“il manifesto, 15
dicembre 2015
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