8.11.16

1960, la mafia contro i capi-lega contadini. L'uccisione di Bongiorno (Emanuele Macaluso)

Nel 2005 l'Istituto Gramsci della Sicilia pubblicò con il titolo Delitto alle elezioni, una ricerca di Calogero Giuffrida su Paolo Bongiorno, l'ultimo dei sindacalisti e capilega uccisi in Sicilia dalla mafia nel corso della lunga battaglia per la riforma agraria, iniziata nel 1944. La prefazione, affidata ad Emanuele Macaluso, ricostruisce il clima complessivo di quegli anni, gli anni del “regime democristiano”, e denuncia l'impunità garantita agli esecutori ed ai mandanti dei delitti di mafia, specie quando essi riguardavano i contadini che dirigevano i movimenti di lotta. Ne propongo qui una parte. (S.L.L.)

Il bracciante assassinato dalla mafia, in uno scenario che ricorda quello descritto da Leonardo Sciascia nel Giorno della civetta, segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, si chiamava Paolo Bongiorno. Era l’anno 1960 e la Sicilia sembrava che fosse uscita da quel lungo periodo, iniziato nel 1944 - dopo i primi decreti del ministro Fausto Gullo per una ripartizione più equa dei prodotti agricoli nei fondi condotti a mezzadria e per l’assegnazione delle terre incolte alle cooperative - in cui il movimento contadino con le occupazioni delle terre tendeva a fare applicare quei decreti e a sollecitare l’approvazione di una legge generale di riforma agraria. Nel corso di quella lotta la mafia uccise tanti capi-lega, i cui nomi sono ricordati da Giuffrida.
In quella zona della Sicilia in cui si trova Lucca Sicula, nel gennaio del 1947, era stato assassinato il segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, Accursio Miraglia, un combattente che ricordo ancora bene oggi. Poco dopo il 1° maggio, a ridosso quindi di quel 20 aprile in cui si svolsero le prime elezioni regionali con un grande successo della sinistra, fu consumata la strage di Portella delle Ginestre.
Dicevo che nel 1960 la Sicilia sembrava che fosse uscita da quel tunnel di morte, invece no. Il notabilato locale, che in alcuni comuni siciliani aveva covato odio per il movimento contadino e conviveva con la mafia, che usava la delinquenza per servizi sporchi, non tollerava che ci fossero uomini con la schiena dritta che rivendicavano i diritti dei lavoratori. Spesso, con il notabilato locale convivevano marescialli e brigadieri dei carabinieri che si sentivano onorati di essere “amici” di un “signore”: piccoli miserabili. E coprivano anche i crimini di quei signori.
Sul piano provinciale, spesso, commissari di polizia (che non erano come il Montalbano di Andrea Camilleri e delle fiction), questori e procuratori convivevano con gli uomini del potere politico e mostravano disprezzo sociale per il popolo che non si rassegnava ad accettare l’esistente.
Ebbene, in questo libretto si possono leggere pagine in cui questo spaccato della società siciliana emerge con brutale nettezza. Paolo Bongiorno, padre di cinque figli, fu assassinato a colpi di arma da fuoco mentre rientrava a casa. La sua vita era limpida: si svolgeva tra il lavoro duro del bracciante, la Camera del Lavoro, la sezione comunista e la famiglia. Tutto qui. I suoi nemici erano solo coloro che in quegli anni non tolleravano la presenza di un uomo che ne organizzava altri per rivendicare diritti negati e per lottare contro quel mondo che da secoli li aveva oppressi. E quelle persone combattevano sul piano sindacale e su quello politico, contendendo ai notabili anche la guida del Comune, considerato da sempre un centro esclusivamente a loro servizio.
Ma questori, carabinieri, magistrati indirizzavano le “indagini” verso direzioni inesistenti: fatti privati, mariti gelosi. Non trovavano nulla e archiviavano. Così fu anche per Bongiorno. Va sempre ricordato che per nessuno dei capi-lega uccisi fu mai trovato l’assassino e il mandante. E quando qualcosa si muoveva in una direzione giusta, se c’era un carabiniere, un commissario e un magistrato onesto, scrupoloso e ligio alla legge, provvedevano i ministri, i tribunali e le Corti di Appello a mettere il sigillo che seppelliva l’inchiesta e la verità.
Bisognerebbe ragionare su cosa fu la giustizia in quegli anni. Anche perché c’è chi parla con rimpianto di come funzionava - la giustizia! - in quegli anni rispetto alla “Toghe rosse” di oggi. Questo libretto di Giuffrida ha un grande merito perché dice ai giovani che la memoria va tenuta presente e che non si può costruire un domani senza capire il passato e la storia che ancora ci condiziona. E la Sicilia oggi ha bisogno di sapere e di capire, se vuole uscire da una condizione in cui sembra che l’unica cosa che conti sia il potere e chi sta al potere, e certi valori e idealità appaiono sepolte da una coltre di opportunismo.
La mafia uccide non solo le persone ma anche le coscienze rendendo inerte e impotente le società.

Ricordiamo anche questo per capire l’oggi.

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