Vediamo la verità come
in uno specchio: ovvero un’immagine confusa, deformata. È dai
tempi di Paolo di Tarso che la tradizione cristiana invita tutti gli
uomini a scoprire nella metafora dello specchio il riflesso della
fede. Certo, ma come possiamo interpretare la verità? Con la parola.
Perché la verità deve
esser rivelata. «In principio era la parola» scriveva Giovanni
all’inizio del suo Vangelo. E la parola per eccellenza che parla
agli esseri umani è quella dell’autorità suprema della Chiesa: il
papa. Ecco perché smontare il linguaggio di un papa serve a
conoscere gli oggetti delle sue enunciazioni, le intenzioni, i
destinatari.
Cosa ci dicono le
parole dei papi, sempre più pop
Abbiamo provato a farlo,
per cogliere il ritmo della trasformazione degli ultimi decenni,
mettendo sul tavolo anatomico del linguista cinque discorsi
pronunciati dagli ultimi tre pontefici, Karol Józef Wojtyla, Joseph
Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio, in circostanze simili.
Il discorso di
insediamento; un discorso particolarmente significativo rivolto alla
Curia romana; un famoso discorso-denuncia molto acceso e discusso; un
discorso pronunciato di fronte ai fedeli del proprio Paese o comunque
relativo alla propria patria; infine un discorso importante tenuto
fuori Roma (v.box).
Nella stesura di queste
orazioni si inscrivono sia la traccia della società cui sono
indirizzate sia la personalità dell’autore.
D’altra parte, la voce
del pontefice pronuncia le parole dell’ultima autorità universale
rimasta sul pianeta.
Ratzinger: la
Chiesa al primo posto
Nel momento in cui un
papa si rivolge alla Curia romana l’evangelizzazione passa in
secondo piano. Quando parla ai cardinali il pontefice fa emergere le
sue intenzioni politiche. E qui è interessante, perché se il
soggetto del discorso è la Chiesa intesa come istituzione, il modo
di tematizzarlo è un indice della tempra del papa.
Solo Ratzinger chiama la
cosa con il suo nome e utilizza il lemma Chiesa con più frequenza
degli altri (33 volte). Nel definire il perimetro di questa
istituzione, Benedetto XVI ricorre a due chiavi di interpretazione
del suo statuto, che ritroviamo nei termini Concilio e fede.
Quindi nel definire gli
interlocutori della Chiesa si rivolge al mondo, termine che ricorre
molto più di quanto ritorni il lemma Dio. È, insomma, un papa
mondano, che tende a riportare quaggiù sulla terra le cose di lassù.
Woytyla: il pastore
che pensa alla vita
Tutto il contrario di
Wojtyla, che guarda in alto. Nei suoi discorsi subordina il
riferimento alla Chiesa a quello indirizzato a Dio – richiamato il
doppio delle volte – e collocato in posizione dominante sul testo.
L’unità degli uomini,
siano essi religiosi o laici, avviene sotto il mandato dell’autorità
più alta nella Grande Catena dell’essere. Le 36 occorrenze del
designatore Dio denunciano una strategia retorica consapevole da
parte di Wojtyla, solitamente più parco in questo genere di
invocazioni.
O meglio: sembra che
quando parla davanti alla Curia invochi Dio molto più di quanto
faccia al cospetto dei fedeli. Come se le minacce provenienti da
vescovi e cardinali richiedessero maggiore prudenza. Eppure, per
esperienza, Wojtyla avrebbe potuto temere di più le folle che i
porporati.
La prospettiva si
rovescia quando il pontefice si rivolge al mondo esterno. Il
destinatario immediato sono le adunate di fedeli presenti all’omelia,
il bersaglio è la secolarizzazione della cultura contemporanea,
l’indirizzo finale è quello dei potenti della Terra.
La parola chiave del
discorso di Wojtyla è vita: nel suo testo compare 77 volte, ed è il
soggetto di gran parte dei suoi enunciati. La sua riflessione si
sviluppa in un momento di crescita economica e di trionfo dei valori
mondani, riconducibili al successo professionale, al prestigio
sociale, all’edonismo morale.
Il linguaggio del papa è lo specchio capovolto della società cui si rivolge: propone un’interpretazione diversa dell’esistenza, quella della coscienza (15 volte), suggerendo che la verità (16 volte) non sia quella che appare nella concretezza dei sensi e del qui-e-ora.
Il linguaggio del papa è lo specchio capovolto della società cui si rivolge: propone un’interpretazione diversa dell’esistenza, quella della coscienza (15 volte), suggerendo che la verità (16 volte) non sia quella che appare nella concretezza dei sensi e del qui-e-ora.
Ora l’appello a Dio,
convocato 36 volte, acquista il senso pieno che ricopre nel pensiero
di Giovanni Paolo II: è anzitutto il pastore (26 volte), poi anche
padre (19 volte), che accompagna – nell’immanenza della vita nel
mondo – i giovani alla verità.
Bergoglio: la
sofferenza al centro
Nel discorso di Bergoglio
invece la Chiesa è confinata a un ruolo minore. Protagonista è la
metafora della malattia, in generale l’allegoria del corpo che
soffre. Se si sommano le 38 occorrenze dei lemmi Cristo, Chiesa e Dio
non si riesce ancora a bilanciare la frequenza del dizionario che
allude al malessere fisico. Papa Francesco ama indulgere al
linguaggio figurato della vita materiale nella sua dimensione
quotidiana, con le immagini della famiglia e dei suoi ruoli, e con
quelle dell’esistenza corporale di ogni individuo. La sua retorica
punta sull’empatia, e in questo senso è popolare poiché mira alla
persuasione attraverso il consenso emotivo. Ognuno ha una casa e un
corpo, e la loro intimità affrontata nelle parole del papa diventa
lo specchio visibile di ciò che deve essere l’unità della Chiesa
con i suoi fedeli. Se fosse un semplice politico, gli analisti non
indugerebbero nel chiamarlo populista – o meglio, come spiega lo
studioso Loris Zanatta nell’intervista alle pagine 6 e 7, andrebbe
definito peronista.
Il mondo su cui si
affaccia Bergoglio soffre il fallimento della promessa di prosperità
elaborata ai tempi di Giovanni Paolo II: il suo discorso è la
rotazione dello specchio puntato contro la società dal suo
predecessore. È il papa più politico: la chiave di volta è la
richiesta di cambiamento, ribadita 28 volte, sulle esigenze di casa,
giustizia, pace, diritti e lavoro (tutte ribadite tra 10 e 11 volte),
formulate dai popoli della terra. È anche il papa dell’immanenza:
la sua voce si leva contro il potere della finanza, tanto che nel suo
dizionario trova ospitalità anche la nozione di economia, che i suoi
predecessori trascuravano del tutto.
La presenza di Dio
nel mondo
Se Bergoglio parla con
parole semplici, comprensibili e capaci di arrivare al cuore e alla
mente di tutti i fedeli, Ratzinger sceglie un registro più “alto”,
come se si rivolgesse agli esponenti d’una Repubblica delle
Lettere. Il focus del suo discorso è l’Europa, con
particolare attenzione ai valori che la rendono una comunità non
solo economica. La loro portata culturale è universale e si fonda
sull’identità cristiana. Data la levatura intellettuale di
Benedetto XVI, il dizionario è molto vario (il 44,4% delle parole
compare una volta sola, contro il 24% di Wojtyla, e il 30% di
Bergoglio), con la struttura sintattica più complessa dei tre.
Nei discorsi rivolti a
popoli specifici, il protagonista dell’orazione per Wojtyla è
ancora una volta la Chiesa. Per Bergoglio e per Ratzinger invece il
soggetto è Dio, che per Benedetto XVI si manifesta come parola e
come cultura, mentre per Francesco si rivela con i tratti domestici
del fratello, della madre, del figlio e del sangue. La Chiesa, la
cultura, la famiglia e il corpo sono la sequenza attraverso la quale
i papi hanno suggerito di cercare la presenza di Dio nel mondo, hanno
proposto di sentirla, hanno chiesto obbedienza e solidarietà alle
parole del pontefice – promettendo in cambio un’identità
interiore e una dignità sociale per ciascuno.
La Chiesa e il
cambiamento
Wojtyla tenta di ruotare
il senso del termine vita in una direzione trascendente, che orienti
la ragione stessa dell’esistenza individuale e collettiva della
comunità verso una giustificazione superiore. In questa direzione
deve ritrovarsi anche il valore e il potere della Chiesa come
istituzione.
Ratzinger rimuove la
suggestione della chiamata celeste dal ruolo della comunità
cristiana, per riconsegnarlo alla diligenza dello studio e alla
pazienza del dialogo. Il significato della vita è la ricerca, il
senso dell’essere emerge dal primato delle radici della cultura
europea: il logos, l’argomentazione, il libro.
Bergoglio è un politico
missionario: sa che lo spazio per la vita oltremondana si estende sul
margine che la fatica per la sopravvivenza lascia alla dignità
dell’esperienza terrena. Conosce la pragmatica linguistica dei
gesuiti ed è consapevole di come si fanno cose con le parole, prima
che discorsi: alla Chiesa non basta l’unità e il coraggio dei
fedeli, né l’egemonia nella Repubblica delle Lettere europea o
nella Città di Dio. Serve il cambiamento radicale, perché tutto
resti come prima.
Pagina 99, 26 novembre
2016
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