Qualche volta i posteri
sono veramente cattivi. Hanno fatto pesare (ma sarebbe più giusto
dire "abbiamo", perché i posteri siamo anche noi), abbiamo
dunque fatto pesare su Plinio Gaio Secondo l'appellativo di Vecchio
(Plinio il Vecchio) che ne ha compromesso gravemente l'immagine
presso i lettori, spargendo un certo sentore di muffa e di polvere
sulla sua opera. Se poi andiamo a controllare le date, ci accorgiamo
che Plinio il Vecchio morì a soli cinquantacinque anni durante la
tragica eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo mentre era al comando
della flotta romana di Capo Miseno, e che il nipote Gaio Plinio
Cecilio nominato dai posteri come Plinio il Giovane morì, anno più
anno meno, alla stessa età dello zio. Il lettore ha finalmente la
possibilità di spolverare l'immagine di questo autore da quando
l'editore Einaudi ha iniziato la pubblicazione, con testo latino a
fronte, della sua Storia naturale, opera ponderosa ma anche
fonte di stupori e piaceri inconsueti, fino a ieri introvabile se non
nelle collane straniere dei classici. È uscito da poco il terzo
volume, sui cinque complessivi (Plinio, Storia
naturale, vol. III, "Botanica", pagg. 996).
I classici talvolta ci
spaventano o quanto meno ci incutono troppo rispetto. Quale uso fare
dunque di un testo come questo, sempre citato e pochissimo letto e
che emerge dalla nostra memoria come uno dei tanti relitti di lontani
naufragi scolastici? Confesso che ne ho già fatto un uso poco
riverente in altra occasione, notando come la scienza enciclopedica
di Plinio il Vecchio (la sua Storia naturale è una specie di
Enciclopedia Treccani della antichità) si fosse mutata con il tempo
in una deliziosa raccolta di favole. La pioggia di latte, di ferro,
di lana e di pignatte, il vento Favonio che feconda le cavalle
lusitane, l'elefante che si innamora del giovane Menandro, che altro
sono se non belle favole? Questo terzo volume dedicato alla botanica
e inscritto nell'ambizioso progetto di inventariare l'universo,
ripropone l'annoso dilemma tra Funzione e Ornamento, tra Informazione
e Immaginazione. Per quanto le notizie sulle qualità dei legnami e
il loro uso, quelli che resistono meglio all'umidità e ai tarli,
sulla piantagione, potatura e concimazione dell'ulivo, sulla
coltivazione della vite, siano in buona parte raccomandabili ancora
oggi, dubito molto che i nostri contadini andranno a consultare il
testo di Plinio prima di intraprendere le loro opere. Quello che
posso garantire è che questi volumi resistono allegramente ai tarli
e alle muffe e potranno risultare anche molto divertenti se li si
legge con l'occhio attento alla grande quantità di informazioni
curiose e di aneddoti di cui Plinio era un attentissimo
collezionista. Ingenuità diffidenza malizia obiettività e curiosità
si alternano in quest'opera, uniti sempre allo stupore di fronte al
mistero della natura.
Tutto questo emerge anche
dopo una lettura più frivola, che consiglio senz'altro a chi si
avvicina a questo autore perla prima volta.
Credo che la cosa
migliore sia sempre quella di riportare qualche esempio. L'elvetico
Elicone, che aveva soggiornato a Roma per fare il fabbro, era
ritornato nelle Gallie portando con sé fichi secchi, uva passa e
vino. Dopo avere assaggiato questi prodotti succulenti i Galli si
riversarono in Italia in una guerra che li portò fin sotto le mura
del Campidoglio. Che il platano sia un generoso dispensatore di ombra
con le sue larghe foglie e le sue chiome gigantesche lo sanno tutti,
ma pochi sanno che i romani facevano pagare un tributo speciale ai
Morini (gli abitanti della zona intorno alla odierna Calais) che
abitavano un'area piantata a platani; in altre parole, facevano
pagare una tassa sull'ombra. Gli alberi sui quali venivano tirati i
tralci della vite, pioppi e olmi, erano al tempo di Plinio tenuti
assai più alti di quanto non si usi nelle piantate moderne. Così
alti che durante la vendemmia il contratto prevedeva per i lavoranti
ingaggiati per la raccolta dell'uva anche il risarcimento per le
spese del funerale.
Plinio il Vecchio è
anche un imperterrito moralista e contro coloro che anche ai suoi
tempi disdegnavano l'umile lavoro dei campi è pronto a fare carte
false raccontando, sulla autorità di Omero, che il re Laerte
spargeva di propria mano il letame nei campi (in realtà Omero
racconta solo che Laerte sarchiava i suoi campi, e per un re è già
qualcosa). Un altro re, il re Augia, pare che abbia avviato per primo
in Grecia la pratica della concimazione e che Ercole l'abbia poi
divulgata in Italia, dove gli agricoltori elessero protettore delle
greggi e dei campi il dio Stercuto o Sterculio. E qui Plinio esibisce
fieramente le sue conoscenze sui vari tipi di letame e sulle loro
qualità. Quello di cavallo pare sia il più leggero. Fra gli
agricoltori c' è chi preferisce il letame di giumenta a quello di
bue, quello di pecora a quello di capra; ma fra tutti quello di asino
è senz'altro ritenuto il migliore perchè questo quadrupede ha la
masticazione più lenta. Columella nella sua Arte dell'
agricoltura (anche questa nei "Millenni" di Einaudi)
condanna il letame di maiale, ma è il solo, dice Plinio, perché
tutti gli altri ne fanno alte lodi.
Sui mangiatori di terra
c'è una lunga tradizione che arriva fino ai nostri giorni, sempre
circondata da un alone di mistero e proibizione. Si intuisce che
Plinio avrebbe da fare qualche riserva su questa consuetudine poco
ortodossa, ma l' albo dei mangiatori di terra è nobilitato dalla
presenza del divino Augusto che si era accaparrata a suon di sesterzi
addirittura una collina di terra bianca di cui era ghiottissimo, nei
pressi di Cuma. Tiberio invece aveva una passione per i cetrioli e li
faceva coltivare su speciali carrelli pieni di terra che venivano
spostati al sole nella stagione fredda in modo da avere disponibili
questi ortaggi tutto l'anno per la mensa imperiale. Augusto curava i
suoi malanni al fegato (causati forse dalle scorpacciate di terra?)
con la lattuga. Se la terra e i cetrioli fuori stagione erano
riservati a un'èlite, pare che i romani fossero golosissimi dei
grossi vermi che si trovano sotto la corteccia del rovere; ma è una
notizia che si trova soltanto in Plinio. Il quale non specifica come
venissero cucinati o se venivano mangiati crudi come i frutti di
mare; ma doveva trattarsi comunque di una consuetudine molto diffusa
dal momento che questi vermi venivano prelevati dai tronchi e
ingrassati con la farina in speciali allevamenti.
Il moralismo di Plinio si
fa molto severo sull'uso e abuso dei profumi. I fabbricanti e i
venditori di questi frivoli e costosi prodotti, destinati a svanire
subito nell'aria, erano secondo lui pericolosi agenti della
corruzione e della decadenza dei costumi. Con scandalo racconta che
Caligola si faceva profumare la vasca da bagno e che durante le
parate militari certi generali facevano profumare perfino le punte
delle lance e le aquile che avevano sottomesso il mondo. E Lucio
Plozio, colpito da proscrizione da parte dei triumviri, fu tradito
nel suo nascondiglio dal profumo che aveva indosso e quindi
catturato. Chi potrebbe ritenere ingiusta, commenta Plinio, la morte
di un simile individuo?
Un altro episodio che
getta una luce sinistra su certi nostri antenati riguarda la
proibizione per le donne di bere vino. La moglie di Egnazio Metennio,
per aver bevuto vino da una botte venne uccisa dal marito a colpi di
bastone. Questa infrazione veniva giudicata così grave che il marito
venne assolto dalla imputazione di assassinio. Ma il codice dei
comportamenti nella Roma antica presenta qualche smagliatura
nell'area della botanica: certi ortaggi, come per esempio la ruta,
crescono meglio se le piantine sono state rubate. Da Plinio il
Vecchio i cattivi posteri possono imparare molte cose sui loro
cattivissimi antenati.
“la Repubblica”, 7
aprile 1985
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