La penuria d'acqua non è
cosa recente per gli abitanti del mio paese, Campobello di Licata. Il rubinetto nelle case di tutti o di quasi tutti è conquista relativamente
recente, tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso; ma, in senso stretto, l'acqua corrente c'è stata per poco tempo e solo in pochissime abitazioni.
Nella maggior parte di esse, all'atto dell'allaccio
all'acquedotto, era già collocato un recipiente, il più delle volte
in amianto-cemento, per conservare l'acqua onde rimediare ad una erogazione a
singhiozzo, sempre più diradata nel tempo.
A lungo in paese, anche dopo, rimasero attive
le fontanelle ove si poteva fare liberamente rifornimento di acqua corrente. Vi
si riempivano giarri e giarriteddri, cioè le giare di terracotta senza manici con collo sottile e piccola bocca a
misura di tappo (tuppagliu), mentre la più grande giara a bocca larga, utile a molte conservazioni, era chiamata giarruni. E vi si riempivano quartari
(recipienti più piccoli, a forma
di anfora con due manici, di terracotta, raramente di zinco), bummuli
e bummuliddri
(anforette da pochi litri in
terracotta), bagnere (bagnarole
ovali di metallo per fare il bagno o per mettere a bagno la
biancheria) e cati (catini
di zinco).
Più tardi arrivò il Moplen e fu il trionfo della plastica .
Più tardi arrivò il Moplen e fu il trionfo della plastica .
Il supplemento delle fontanelle serviva
generalmente a integrare il fabbisogno idrico domestico, ma una parte
usciva dall'abitato verso i campi. Le quartare venivano sistemate su
carretti, o più spesso in groppa a muli e somari, negli spazi
appositamente predisposti dal bastaio (vardunaru), per dotare
di una riserva di acqua potabile, fresca e ben conservata, chi andava
a lavorare in campagna.
Poi, nel corso dei gloriosi Sessanta, i
contadini diminuirono fortemente di numero, come pure le bestie da
soma, sostituite da motoveicoli (l'Ape della Piaggio, soprattutto, la
lapa in dialetto); e anche in campagna arrivarono i bidoni
dell'industria petrolchimica.
L'acqua era comunque una risorsa scarsa
e usata con parsimonia perfino eccessiva. Una buona pratica era
quella di riutilizzare l'acqua di cottura della pasta, sempre abbondante per
via delle famiglie molto più numerose che adesso e per la centralità
della pastasciutta nella alimentazione dei campobellesi. La si usava per
lavare piatti, pentole e stoviglie: era di aiuto l'alta temperatura e
la leggera salatura, che faceva risparmiare la lana d'acciaio per
strofinare, come pure la cinnireddra, la liscivia (liscìa
in dialetto) o, più tardi, il detersivo liquido (Butasol o Persil,
mi pare) che si comprava sfuso a decilitri, usando come contenitore
riusabile una piccola bottiglia.
Dato l'uso prevalente che se ne faceva, l'acqua di cottura della pasta alimentare era chiamata lavatura anche quando ne veniva fatto un uso gastronomico. Molti, infatti, amavano rendere un po' più liquida, appunto con la lavatura, la salsa d'“aglio e oglio” che insaporiva gli spaghetti o altra pasta scallata, altri usavano la lavatura per ammorbidire la ricotta che condiva i cavati o i ditali.
Dato l'uso prevalente che se ne faceva, l'acqua di cottura della pasta alimentare era chiamata lavatura anche quando ne veniva fatto un uso gastronomico. Molti, infatti, amavano rendere un po' più liquida, appunto con la lavatura, la salsa d'“aglio e oglio” che insaporiva gli spaghetti o altra pasta scallata, altri usavano la lavatura per ammorbidire la ricotta che condiva i cavati o i ditali.
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