Dell’1% sappiamo,
ormai, quasi tutto. È del restante 99% che sappiamo assai poco. E le
disparità che si sventagliano all’interno della massa delle
persone distanziate dall’élite del top 1% non sono meno
importanti. Nel loro libro Diseguaglianze (Laterza, 2016) i
due economisti Maurizio Franzini e Mario Pianta si propongono di
spiegare “quante sono” le diseguaglianze che ci affliggono, prima
ancora di dire “come combatterle”.
Nel secolo scorso,
scrivono i due, tutto era più lineare: le differenze nei redditi e
nella ricchezza erano in un modo o nell’altro collegate alla
struttura di classe della società. Al trovarsi dalla parte del
capitale, o del lavoro. Bei tempi semplici. Adesso, la dicotomia
capitale/lavoro (e la ripresa di quota distributiva e potere del
primo, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso) è solo uno dei
quattro motori della diseguaglianza, nella ricostruzione di questo
libro. Seguono gli altri tre: il “capitalismo oligarchico” – la
mirabolante e ingiustificata crescita dei redditi al top, in un
intreccio tra potere economico e influenza politica;
l’individualizzazione (spinta al massimo dalla concorrenza tra
lavoratori e carriere, e dalla frantumazione del mercato del lavoro);
l’arretramento della politica con la sua rinuncia a metter mano
alla questione della diseguaglianza. Che qui è indagata nelle sue
cause, oltre che nei suoi numeri; per arrivare alla conclusione che
la questione è complessa ma non irrisolvibile.
Bisognerà – sorpresa –
portare un po’ più di mercato e concorrenza ai piani alti (dove la
meritocrazia è sostituita dall’oligarchia), e stendere protezioni
su quelli più bassi. Il libro è dettagliato e le proposte a tutto
campo, ma ne citiamo qui due, relative ai redditi più alti e ai più
bassi: prevedere un tetto massimo nel rapporto tra i compensi del top
management e quelli dei dipendenti, ed escludere da appalti pubblici
e incentivi fiscali le imprese che non ci stanno; e introdurre un
salario minimo per chi vive del proprio lavoro. Sono solo due esempi
di misure di policy possibili; ma soprattutto, scrivono gli
autori, occorrerà invertire una rotta culturale; per riconoscere che
«l’avidità ha poco a che fare con il dinamismo economico e,
invece, molto a che vedere con i comportamenti socialmente
pericolosi».
pagina 99, 30 aprile 2016
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