Con la recente edizione
dei Racconti (a cura di Ernesto Franco, Einaudi-Gallimard)
Julio Cortázar irrompe di nuovo, in grande stile, sulla scena
letteraria italiana, dopo un periodo di precoce silenzio. Negli
ultimi anni, infatti, solo due pubblicazioni hanno rotto una sorta di
congiura intorno al nome dello scrittore argentino. Un’iniziativa
dell’associazione culturale «Julio Cortázar», che da anni si
dedica con passione e intelligenza all’opera del narratore
scomparso nel 1984, ha riunito per le edizioni di Linea d’Ombra una
scelta di testi inediti in italiano, dedicati soprattutto a temi di
politica culturale ( Ultimo round e altri scritti politici
1966-1983, a cura di Assunta Mariottini, Milano, 1992). Ernesto
Franco, curatore di questa Plèiade einaudiana, poco tempo fa aveva
presentato, sempre per Einaudi, una delle prime opere edite di
Cortázar, Ire, un singolare poemetto drammatico ispirato a
una rilettura della figura del Minotauro.
Inquiete presenze
Si potrebbe avanzare
qualche ipotesi su questa momentanea eclissi. Non è arbitrario
pensare che questi sono tempi duri per i cronopios . Queste
creature inventate da Cortázar, infatti, rappresentano quanto di più
estraneo si possa concepire nei confronti dell’ordine costituito,
di ogni ordine costituito. Resta da augurarci, allora, che questa
edizione non sia solo il frutto di una felice programmazione
editoriale, ma rappresenti il sintomo di un’inversione di tendenza
nella grigia stagione dell’apologia dell’esistente.
Pochi autori, infatti,
sono come lui portatori di una carica altrettanto eversiva di
liberazione, interamente risolta nel tessuto di uno stile inimitabile
e non affidata a proclami esteriori. Lo scrittore argentino era
arrivato piuttosto tardi al racconto o, per meglio dire, decise
abbastanza tardi di dare alle stampe il frutto di un’attività di
scrittura che era iniziata fin dall’adolescenza. Proprio per questo
rigore autocritico, l’esordio con la raccolta Bestiario
(1951) - alcuni racconti, comunque, erano stati anticipati su riviste
- fu folgorante. Fin dal testo di apertura, Casa occupata, ci
troviamo di fronte a una situazione di rischio incombente, di
sottrazione successiva di spazi, che genera un’angoscia
indecifrabile o almeno irriducibile a una chiave univoca di lettura.
Con il secondo racconto
si precisa anche il senso del titolo della raccolta, con la sua
allusione alle presenze animali inquietanti che la percorrono. I
coniglietti vomitati dal protagonista di Lettera a una signorina
di Parigi appartengono a quel repertorio degli «animali del
sogno», che si affacciano in forme diverse in tanta parte della
narrativa e della poesia ispanoamericana. In Cortàzar, questi
fantasmi dell’alterità vengono assorbiti all’interno di un
quadro di normalità apparente.
La logica formale offre
un’ancora di salvezza che finisce però, paradossalmente, per fare
emergere con maggiore forza l'assurdo quotidiano.
Con Lontana (e
siamo solo al terzo racconto) il tema dell’alterità si collega a
quello del linguaggio, attraverso il ricorso agli anagrammi, ai
palindromi (alle frasi cioè che sono identiche anche se lette a
rovescio) e ad altri giochi di parole. Giochi, appunto, come
suonerà il titolo di una delle sezioni in cui lo scrittore dividerà
i suoi racconti, che tuttavia dischiudono una porta su una realtà
parallela, fino a una rilettura del grande tema del doppio.
A partire da queste
premesse si svolge tutta la sua produzione successiva, articolata sia
nelle raccolte di racconti che nei romanzi. C’è un affinamento
progressivo della tecnica narrativa, fondato anche sulla pratica
costante della traduzione di grandi scrittori di lingua inglese e
francese (tra gli altri, Poe, Chersterton, Defoe, Gide, Yourcenar).
Cortázar forgia così un linguaggio che lo distingue, con una voce
originale, nell’ambito del filone fantastico, così radicato nelle
terre rioplatensi. A questo risultato contribuisce un rapporto
stabilito in termini rinnovativi e dinamici con le avanguardie
storiche, e in particolare con il surrealismo. A differenza di altri
grandi scrittori ispanoamericani, come il cubano Alejo Carpentier, i
guatemaltechi Miguel Angel Asturias e Luis Cardoza y Aragón
(quest’ultimo pressoché sconosciuto in Italia), Cortázar, per
ovvie ragioni cronologiche, non ha frequentato i surrealisti
dell’epoca eroica. Da loro, tuttavia, ha ricavato una lezione di
radicalità letteraria che lo spinge all’esplorazione continua di
nuovi mondi.
Nella seconda raccolta,
Fine del gioco (1956) ritorna fin dal titolo il motivo ludico,
anche in questo caso tuttavia contraddetto da risvolti inquietanti.
Il gioco della letteratura, e della lettura in particolare, si
risolve nell’irrompere di un’aggressione omicida che infrange la
finzione, come nel celebre e brevissimo Continuità dei parchi.
I trapassi e le contaminazioni tra dimensioni diverse della realtà
si allargano alla sfera del mito. Anche in questo caso, è
interessante sottolineare le analogie ma anche le differenze con il
modello offerto da Jorge Luis Borges.
Distrazione dal
mondo
Cortázar cominciò a
pubblicare nell’ambito del gruppo di Sur, che esercitava una salda
egemonia sulla letteratura argentina del tempo. Tuttavia, fin dalle
sue prime prove, andava rivelando alcuni tratti irriducibili al clima
di quell’ambiente letterario. C’è in lui, soprattutto,
un’adesione vitalistica all’esperienza immediata che si
contrappone alla grandiosa inerzia malinconica di Borges, appena
corretta da una nostalgia di azione e di violenza destinata alla
sconfitta.
Ernesto Franco, nella sua
ampia introduzione, offre un itinerario di lettura particolarmente
suggestivo e non prevaricante. Sottolinea, per esempio, il ruolo
decisivo che svolge nell’opera di Cortázar la distrazione, come
sentimento del mondo. In effetti, è persistente in lui il ricorso
alla sfasatura, alla dissonanza, come percezione di un altrove in
continua dislocazione. La poetica del camaleonte, che lo scrittore
ricava dall’amato John Keats, esprime con efficacia l’aderenza
cangiante ai dati del reale. In questa prospettiva si colloca anche
l’adesione profonda dell’autore a fenomeni extraletterari, nei
quali avverte una consonanza stilistica. Il jazz, in particolare, è
presente non solo a livello tematico, come nel lungo racconto Il
persecutore, recentemente riproposto dalla stessa casa editrice
in un volume autonomo, o in tante pagine del romanzo Il gioco del
mondo. Quell’esperienza musicale gli offre un modello di
sintesi tra il rigore formale e una creatività senza limiti.
Influisce certamente anche sull’evoluzione dell’elemento ludico
all'interno della sua opera. Il gioco sembra infatti liberarsi, a
volte, delle connotazioni inquietanti, fino a dispiegarsi nelle
figure aeree dei cronopios come trasgressione incontenibile.
Basterebbe confrontare, a
questo proposito, le esilaranti «istruzioni» di Storie di
cronopios e di famas (per piangere, per cantare, per salire le
scale, ecc.) e la loro scomposizione straniata dei movimentipiù
banali, con la versione tragica dello stesso procedimento nel
raccontoNon si dia colpa a nessuno, imperniato sul gesto solo
apparentemente innocuo di infilarsi un pullover. Non è un caso,
allora, che nel libro Il giro del giorno in ottanta mondi, qui
rappresentato dai testi di carattere narrativo, figuri un affettuoso
omaggio a Louis Armstrong, «enormissimo cronopio».
Ernesto Franco definisce
anche la collocazione di Cortázar all’interno della grande
letteratura fantastica rioplatense, indicando coincidenze e
differenze. Rispetto a Borges, sottolinea soprattutto, come si è già
accennato, la presenza irriducibile del vissuto personale. Più
discutibile è forse l’accostamento a Macedonio Fernández, il
grande padre della letteratura argentina contemporanea (compreso lo
stesso Borges), non solo per i suoi scritti ma anche, e soprattutto,
per il suo magistero orale.
Voci dal passato
Certamente la sua
presenza si avverte anche in Cortázar, ma quest’ultimo evade poi
sempre dall’orizzonte della parola, creando una tensione profonda e
feconda tra la parola stessa e l’altro. Semmai, bisognerebbe
ricordare tra le altre presenze argentine importanti nella sua
formazione - Cortázar era il primo a riconoscerlo - la singolare
figura di Leopoldo Marechal. Cortázar fu uno dei pochi a dedicare
una calorosa recensione al suo Adán Buenosayres (1948) - uno
dei romanzi ispanoamericani più importanti del Novecento, ancora
sconosciuto in Italia - quando Marechal era messo al bando
dall’intellettualità egemonica, a causa del suo peronismo.
Già allora, come tante
volte in futuro, Cortázar dimostrò la sua capacità di «essere
altrove», anche sul terreno della politica culturale. L’analogia
con Marechal non si trova soltanto in alcuni importanti aspetti
formali - in particolare il plurilinguismo -ma anche in alcuni assi
portanti della visione del mondo. Basterebbe citare l’idea
eraclitea secondo cui bisogna immergersi fino in fondo
nell’abiezione, per poter iniziare la risalita.
Sull’arte del
racconto
Al di là di questi
riferimenti, quello che conta è poi il sigillo inconfondibile di
Julio Cortázar, che ci regala diversi racconti degni di figurare in
qualunque antologia universale di questo arduo genere letterario.
Questa raccolta dei suoi racconti offre un’immagine impressionante
della continuità creativa dell’autore. Accanto ai testi già
tradotti in passato - ma introvabili da anni in libreria - leggiamo
per la prima volta in italiano nuovi racconti.
Nelle appendici finali,
inoltre, rintracciamo i primi abbozzi narrativi dell’autore,
analizzati con grande finezza da Ernesto Franco nell'introduzione.
Due scritti teorici sull’arte del racconto rivelano tutta la
profonda autocoscienza dello scrittore. In effetti, ritroviamo in
queste pagine il risvolto di quella che sembrerebbe una prodigiosa e
per così dire «naturale» vocazione di narratore.
Con questa edizione,
accompagnata da un’accurata cronologia, da una bibliografia
essenziale e da puntuali note ai testi, Cortázar entra nell'Olimpo
dei classici. Lui certamente ne avrebbe riso divertito, in armonia
con ii suo rifiuto costante e gioioso di ogni solennità. Ma noi
vediamo in questa consacrazione un atto di giustizia verso uno dei
grandi artisti del nostro tempo.
“il manifesto”, 25
febbraio 1995
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