Truman Capote a Bangkok nel 1957 in una foto di Cecil Beaton |
Lo sguardo a sangue freddo
Chiunque avrebbe voluto
essere Truman Capote; godere del suo successo letterario e rispettivi
guadagni e del suo successo mondano, con relativo nomadismo,
dall’isola di Duke alla casa svizzera di Charlie Chaplin; ad altre
ville e ad altri castelli. Anche le sue relazioni omosessuali, benché
investite da crisi tempestose, avevano finito per consolidare la sua
vita, mentre il personaggio Capote si imponeva anche attraverso gli
inquietanti scatti di Cecil Beaton. Inquietanti non per l’attimo
fuggente; al contrario perché fissavano il personaggio in una sorta
di definitiva dinamica del suo carattere e forse del suo destino.
Resta da capire come
manovrare i segreti del suo stile perché tanti suoi racconti
sarebbero piaciuti anche al dottor Cechov: quello su Marilyn Monroe,
ad esempio, incontrata a un funerale e perduta sul ponte di Brooklyn;
sparita, ma non in una terrestre latitudine.
Attorno a lui una
selezionatissima cerchia di «divini mondani» avevano creduto,
poveri illusi, di aver trovato il poeta di corte, lo storico dei loro
brividi, il garrulo testimone di una vita dai riti non comuni. Invece
tutto a un tratto questi happy few dei miliardi, compresi gli
«stupidi agnelli», si videro infilzare come quaglie allo spiedo.
L’unico veramente
«divino» era rimasto lo scrittore, a sua volta così ingenuo da
aspettarsi un ennesimo plauso per quei pettegolezzi così ben
cesellati. E invece si abbatté su di lui la condanna considerata più
severa: l’espulsione dai riti mondani. Una cosa risibile solo per
chi non sa che cadere fuori dal giro, per qualcuno è peggio che
morire: Proust e Maugham insegnano. Oggi solo i giornalisti
specializzati ricordano i nomi di costoro: sic transit gloria
mundi, ma non quella dello scrittore che comunque fu colpito da
grande infelicità. Truman Capote appartiene, in una visione molto
semplificata, alla categoria degli artisti autodistruttivi. Se ci
riferiamo al nostro ambiente non possiamo non pensare, et pour
cause, al pittore-poeta Filippo De Pisis. Questo processo
intuitivo può essere plausibile, e tuttavia resta molto difficile
stabilire in quale momento le forze autodistruttive si mettono in
moto. Magari al culmine di una carriera di esuberanze esistenziali,
di intrepida raccolta - sempre tempestiva, up to date - dei
doni della vita per introdurvi nel più esigente degli spettacoli che
è quello della trasfigurazione artistica.
Questo momento di
esplosione della crisi e dell’avvio del processo di inversione,
sarebbe degno di un mito moderno: per Truman Capote io credo sia
cominciato non già quando venne messo in castigo dall’alta
società, ma molto prima quando posò per la prima volta lo sguardo
sui due giovani assassini di A sangue freddo.
Capote ne ha raccontato
la storia fino all’esecuzione sulla sedia elettrica, compiendo fino
in fondo, eroicamente, il proprio dovere di grande cronista di questo
secolo. Ha descritto il Male del mondo di cui i due assassini erano
agenti e vittime in una sorta di tragica ambiguità. Il Male che ha
agito dentro e fuori di essi è eterno incubo degli gnostici che
continua a scorrere sotto le fasi delle nostre sorti magnifiche e
progressive.
A Capote si è rivelato
come il volto della Medusa e a questa rivelazione egli deve la sua
triste fine.
"alias- il manifesto", 7 agosto 1999
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