Quello di Carlo
Michelstaedter rappresenta senza dubbio il caso più singolare della
cultura italiana del Novecento. Non sarà male riassumere i termini
essenziali della questione, perché, per l'appunto, uno degli aspetti
di questa singolarità consiste nel fatto che, pur trattandosi del
nostro pensatore moderno più acuto, l'informazione che il pubblico
medio ha di lui è ancora pressoché inesistente, mentre superficiali
ed episodiche sono le tracce che egli ha lasciato nel mondo della
cultura professionale. E, bisogna riconoscerlo, non senza qualche
responsabilità da parte sua.
Si direbbe, infatti, che
egli, in omaggio ad un principio di coerenza assoluta che ha pochi
eguali, abbia organizzato e voluto la propria presenza vitale in
maniera che, come durante la sua breve esistenza scansò per quanto
gli era possibile le seduzioni del coinvolgimento e della
partecipazione, così dopo la sua morte non restasse di lui che una
balenante, quasi inafferrabile cometa di pensieri puri: difficilmente
ri-utilizzabili e dunque, per tutti, inutili.
Giudichi il lettore.
Carlo Michelstaedter era nato a Gorizia da una colta e benestante
famiglia ebrea nel 1887 (ed infatti, per celebrarne il centenario, si
svolgerà nella città natale, dal 1 al 3 ottobre, un convegno di
studi ideato da Elvio Guagnini e organizzato dalla locale
Amministrazione provinciale). Dopo aver frequentato il ginnasio nella
città natale, nel novembre 1905, dopo una breve parentesi viennese,
si trasferisce a Firenze e si iscrive all' Istituto di Studi
Superiori, dove segue i corsi classici, perfezionando la sua già
eccezionale conoscenza del greco e appassionandosi a questioni di
filosofia antica. Le testimonianze biografiche di questi anni sono
assolutamente normali e ovviamente alquanto scarse: come del resto è
scontato, poiché parliamo di un qualsiasi studente universitario tra
i diciotto e i ventidue anni.
Possiamo soltanto dire, a
giudicare dal ricco materiale recuperato postumo, che già allora
ferveva intensamente la sua intima ricerca intellettuale (versi,
riflessioni): anche se in quegli anni poco ne emergeva, se non nei
rapporti con gli amici, che furono intensissimi sia a Firenze sia a
Gorizia (e questa propensione per il sodalizio maschile costituisce
indubbiamente un tratto caratteristico della sua personalità). Come
che sia, nei due anni successivi Michelstaedter, oltre alle normali
relazioni e attività di un giovane della sua età, attende
principalmente alla compilazione della sua tesi, assegnatagli nel
settembre 1908 dal professor Vitelli sul tema: I concetti di
persuasione e di retorica nelle opere di Platone e Aristotele
(non senza qualche implicita ma chiarissima intenzione polemica, come
ho avuto già modo di motivare altrove, nei confronti del clima
culturale fiorentino, dominato dalla banda Prezzolini e dall'
esperienza della “Voce”). All'inizio dell'ottobre 1910 spedisce
da Gorizia alla segreteria del suo Istituto il manoscritto della
prima (e più rilevante) parte del suo lavoro. Il 16 ottobre termina
di stendere le Appendici (dottissime) della sua tesi. Il pomeriggio
del giorno successivo (pare dopo una discussione con la madre, ma,
come dirò, l'occasione immediata mi sembra irrilevante), si uccide
con un colpo di rivoltella.
Le pubblicazioni degli
scritti del giovane Michelstaedter sono tutte postume (se si esclude
qualche trascurabile eccezione), e furono dovute alla cura affettuosa
di alcuni amici, che ne avevano intuito il genio. A lungo il
patrimonio del suo pensiero è dunque rimasto disperso e incompiuto,
e ciò ne ha accresciuto la marginalità. Di lui abbiamo un gruppo
non numeroso di poesie, un lungo Dialogo della salute, uno
scritto breve ma importante dal titolo Il prediletto punto d'
appoggio della dialettica socratica, una quantità imponente di
appunti, note, riflessioni, ecc.; e soprattutto il lavoro di tesi,
universalmente noto come La persuasione e la rettorica. Si
tratta, a mio giudizio, del più importante testo filosofico italiano
del secolo (se si prescinde da talune acerbità dell'argomentazione,
ancora, e forse proprio perciò stupefacente di genio, non del tutto
professionalizzato e molto molto giovanile). Il discorso di
Michelstaedter è assai complesso e arduo, anche perché tramato da
un continuo colloquio con gli antichi. Per dirla molto in breve, si
potrebbe osservare che è un discorso sull'essere, ossia sulle
condizioni dell'essere umano e sulle radici della vita, al di là o
al di qua di qualsiasi camuffatura sistematica e di qualsiasi
illusione, quand'anche biologica (e, come Michelstaedter dimostra, ce
ne sono).
Secondo Michelstaedter la
persuasione è il possesso presente della propria vita, e chi vuol
essere un attimo solo persuaso di ciò che fa, deve impossessarsi del
presente, vedere ogni presente come l'ultimo...: nell'oscurità
crearsi da sé la vita. La rettorica, al contrario, è la piena,
ottusa soggezione all'amore della vita, che restringe lo spazio
d'azione del pensiero entro i limiti miserabili dei bisogni
quotidiani. Colui che si mette per questa strada, è dunque soggetto
alla materia invece di dominarla, soggetto al dolore invece di
accettarlo per arrivare attraverso di esso alla gioia, soggetto alla
deficienza della natura umana invece di partire dal riconoscimento
della sua ineliminabilità per arrivare, appunto, a quel pieno, anche
se istantaneo e rarissimo possesso di sé, che è la persuasione.
Per questo, sebbene il
suo pensiero sia quanto di più antimetafisico e antisistematico si
possa immaginare, è difficile parlare, a proposito di
Michelstaedter, di una risposta religiosa alla crisi del mondo
moderno (e delle sue filosofie, tanto idealistiche quanto
attivistiche): se mai, bisognerebbe parlare di un pensiero
profondamente laico e morale, alla maniera, per intenderci, del
Leopardi delle Operette e degli ultimi Canti. Con il
quale oltretutto, Michelstaedter condivide la convinzione profonda
che i veri pessimisti sono energòi (attivi, ndr.) nel dolore,
perciò sono sani: id est vanno alla salute (precisamente nel senso
in cui questo termine viene usato nel titolo e nel testo del Dialogo
della salute); mentre proprio gli altri, i devoti dell'amore
della vita, sono inerti nel dolore, vogliono riposare, perciò sono
malati: vanno alla pazzia.... A mio giudizio, Carlo Michelstaedter è
ben consapevole, nello sviluppare il suo ragionamento, che esso è,
in sostanza, un ragionamento paradossale (o, più esattamente,
tragico-paradossale). Approfondire il nesso pensiero-vita fino in
fondo, significa ri-solverlo. La sua pungente critica a Platone è
rivolta precisamente a quella convinzione del filosofo greco
(totalmente antisocratica, a pensarci bene) che l'assoluto abbia una
sua identità oggettiva al di fuori di noi: il che, secondo
Michelstaedter, è addirittura ridicolo pensare. Ma, d'altra parte,
l'assoluto, autentico possesso di sé, il possesso presente della
propria vita, coincide con l'assoluta ri-soluzione dai contenuti
occasionali, contingenti, episodici della vita stessa: coincide,
cioè, con la morte. Il pensiero di Michelstaedter batte la via di
una totale coerenza: non s'arresta neanche di fronte all'ostacolo che
si presenta là dove la vita si biforca dalla sopravvivenza. Dimostra
se stesso, facendosi vita, cioè impossessandosi di sé fino a
confondersi nell'essere. Carlo Michelstaedter, dall' alto dei suoi
giovani anni, ha voluto provarcelo: l'assoluto esiste; ma solo in
quanto si fa nulla.
“la Repubblica”, 29
settembre 1987
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