Roland Barthes |
Il 25 febbraio 1980, giorno in cui fu investito da un'automobile, Roland Barthes lasciava nel rullo della macchina da scrivere il secondo foglio d'un testo intitolato On échoue toujours a parler de ce qu 'on aime: “si fallisce sempre nel parlare di ciò che si ama”. Era un saggio dedicato a Stendhal, destinato a un congresso milanese. Diceva della passione di Stendhal per l'Altro (dove l'Altro era innanzitutto l'Italia) e della sua «polyphonie de plaisirs», del suo amore irresponsabile per il nostro paese, della velocità di una scrittura che guizza inanellando stereotipi ma irradiandoli d'incanto, fino a proporre un'intuizione paradossale: Stendhal, filosofo dei sensi, nei suoi diari e scritti di viaggio è il meno sensuale degli scrittori francesi. L'Italia lo riduce al balbettio, all'impotenza espressiva per ingorgo di sensazioni; dice, ma non comunica. Si sbloccherà con la Certosa di Parma, dove l'irruzione delle truppe napoleoniche in Milano è l'irruzione dell'eroe Bonaparte, del mito, dell'espressione musicale. La bellezza, messa in movimento, diventa festa; l'Italia era una festa mobile. Parlando di Stendhal, Barthes aveva parlato fin dal titolo, per l'ultima volta, di se stesso.
“alias”, 7 febbraio 2004
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