E' morto alcune settimane
fa Eusebio, un calciatore che tante gioie regalò a chi ama lo sport
del pallone. L'articolo che segue, a mio avviso molto bello, ne
ricorda anche le virtù extracalcistiche. (S.L.L.)
Ci sarebbero molte, forse
troppe cose da dire di Eusébio da Silva Ferreira, il grande
calciatore mozambicano che ha guidato il Benfica e il Portogallo
negli anni Sessanta – “Il più grande calciatore portoghese di
sempre era un Africano” (Eduardo Galeano). Prima di Eusébio,
scrive il giornalista Sean Jacobs, «era impensabile per una squadra
europea essere dominata da un Africano: la sua eredità più
importante è l’impatto che ha avuto sulla percezione degli
Africani sia nel calcio che nell’identità europea».
Ma della classe, del
rispetto degli avversari e dei compagni, dell’anima elegante di
Eusébio forse non s’è detto tutto.
Liverpool, 23 luglio
1966, ore 15:42. La Corea del Nord sta battendo il Portogallo
3-1. D’accordo, l’allenatore del Portogallo non è il pirla che
ha lasciato in panchina Meroni, in tribuna Riva e a casa Picchi e ha
mandato in campo Bulgarelli con una gamba sola: ma la Corea non è
quella “squadra di Ridolini” che l’osservatore azzurro
Valcareggi aveva creduto di vedere. Sta di fatto che al 25′ è in
vantaggio per 3-0, e mentre il portiere José Pereira s’è messo
nei capelli quelle mani con cui avrebbe potuto fare di meglio
(soprattutto sull’uscita a spasso per l’area piccola in occasione
del 2-0) Eusébio, con la sua aria triste, decide che è ora che
qualcuno si rimbocchi le maniche, e questo qualcuno non può che
essere lui. Con l’aiuto di Mário Coluna, futuro ministro dello
Sport nel Mozambico democratico dopo la liberazione, e di Torres –
José Augusto da Costa Sénica Torres -, O Bom Gigante, un uomo dal
corpo lungo quanto il suo nome completo. I tre erano la spina dorsale
del Benfica e della nazionale lusitana del 1966, Os Magriços.
Proprio Torres, dopo avergli lanciato la palla del 3-1, va quasi a
immolare una caviglia agganciata da un difensore coreano in area.
Mentre l’arbitro fischia il penalty, Torres zompetta fuori campo
sull’unico piede buono che gli rimane.
Eusébio, un minuto
prima, ha preso una gomitata sulla mascella, e perde sangue dalla
bocca: ma non è il momento di fare i fighetti. Prende la palla, la
mette sul dischetto, va a segnare il 3-2 e, come col precedente gol,
non festeggia: raccoglie la palla e s’incammina verso il
centrocampo, che la partita è ancora lunga e siamo ancora sotto di
uno. Poi si ferma, si volta, cede la palla all’arbitro e resta
voltato a guardare: come sta Torres? Ce la fa? È un improvvido
coreano a dovergli ricordare che, a norma di regolamento, anche
Eusébio deve rientrare nella propria metà campo. Ma a Eusebio, in
quel momento, non interessa il regolamento, vuol sapere come sta il
suo compagno: «In quel Benfica c’era amicizia, c’era voglia di
divertirsi, c’era amore per la camiseta. Non eravamo ricchi come i
campioni di oggi. Noi eravamo poco più che dilettanti. Ma dentro
quella squadra c’era uno spirito che oggi non esiste più».
Stesso luogo, ore
16:15: Portogallo-Corea del Nord 3-3 [2]. Eusébio, dieci metri
dentro la propria metà campo, riceve la palla da Mário Coluna,
avanza caracollando, supera Oh Yoon-Kyung, accelera sulla fascia
sinistra inseguito dal coreano, si arresta, lo risalta facendolo
finire a terra, entra in area puntando Pak Doo Ik (quel Pak Doo Ik,
proprio lui), se lo beve, sembra voglia entrare in porta con tutta la
palla quando Lim Zoong-Sun con una scivolata assassina gli prende
ambedue le caviglie. Prova a rialzarsi, ricade, si trascina fuori,
Eusébio, mentre l’arbitro fischia il secondo rigore. Ma non c’è
tempo per sentirlo, il dolore alle gambe: c’è una partita da
vincere, e il rigorista del Portogallo è l’ex bambino nato nel
barrio Mafalala di Mapute, l’orfano che giocava a piedi nudi in
strada con la bola di stracci. Si rialza, e zoppicando si avvia verso
il dischetto: nessun compagno di squadra ha osato pensare di prendere
il suo posto. Mário Coluna, che avrebbe dovuto sostituirlo, quando
lo vede avanzare zoppicando si fa da parte alzando le braccia al
cielo: se dice di sentirsela, lo tira lui.
Era già successo quattro
anni prima, quando Eusébio aveva solo vent’anni e di fronte c’era
il Real Madrid pentacampeón: «Finale ad Amsterdam: Puskas segna tre
reti, il Benfica rimonta. Sul 3 a 3 ci viene assegnato un rigore.
Prendo il pallone e dico: “Calcio io”. In Mozambico la mia
specialità era calciare i rigori spiazzando i portieri. Qualche
compagno mi guarda perplesso. Normale, avevo appena venti anni.
Coluna mi chiede: “Te la senti?”. Ed io rispondo: “è gol”.
Ed infatti: portiere da una parte, pallone dall’altra. Normale».
Con le gambe in quelle
condizioni neanche pensarci, di tentare una finta: tiro secco a
mezz’altezza alla destra di Lee Chang Myung, che intuisce ma non
può arrivarci. Non ha la forza di esultare, Eusébio – ma la
missione è compiuta: «I miei compagni di squadra mi chiamavano
abono de familia. L’assegno che a quei tempi lo Stato passava alle
famiglie più povere. I miei gol garantivano infatti premi a volontà
e soldi per tutta la squadra. Potevo forse mandare in rovina i miei
amici?»
Londra, 26 luglio
1966, ore 21:10. Ce l’ha messa tutta, il Portogallo: ma oggi
Bobby Charlton ha il demone del calcio che brucia dentro, e riesce in
quello che i bianchi d’Inghilterra non riescono a fare. Quando
Bobby, due minuti prima, ha raccolto l’assist di Hurst e dal limite
ha fiondato la sassata del 2-0, la partita è finita. Le facce
sconsolate dei difensori lusitani dicono tutto; anche quella di José
Augusto, che con grande signorilità va a stringere la mano di Bobby
Charlton: Respect. Il pubblico sugli spalti sta cantando da
due minuti The Saints – sono tifosi che festeggiano, non sono
mentecatti che fanno booh: “Oh when the Saints go marchin in, Oh
Lord I want to be in that number…” Ma sul that number
Simões crossa da destra a sinistra, Torres salta più in alto di
Banks che sbaglia l’uscita e Jack Charlton ci deve mettere la mano.
Sul dischetto, Eusébio contro Banks, che finora non ha subito alcun
goal: portiere a sinistra, palla a destra. Eusébio raccoglie il
pallone, e prima di riportarlo a centrocampo dà un buffetto sulla
nuca al rivale cui ha tolto l’imbattibilità: Respect.
Fischio finale: Eusébio
sa che Bobby Charlton gli ha tolto in un colpo solo il titolo
mondiale e il Pallone d’Oro. Ma oggi il più grande è Bobby: lo
cerca, lo trova, e va a complimentarsi.
Respect. A little
respect (just a little bit). (cit.)
Può darsi che il calcio
non lo abbia reso ricco: ma “ricco” non significa “signore”.
Uno può essere ricco fuori, e non essere un cazzo dentro, diceva
Jannacci. Eusébio era un signore, quando nel calcio si poteva essere
sia ricchi che signori.
L'articolo è tratto dal
sito “Fùtbologia – Il pallone al cubo” (22 marzo 2014).
Per chi voglia vedere i
filmati ecco il link
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