Nel Mininotiziario America Latina dal basso n.15/2012 del 15.05.2012 curato e redattoda Aldo Zanchetta ( www.kanankil.it/aldozanchetta@gmail.com ) ho trovato un provvisorio bilancio dell’esperienza argentina (ma non solo) delle fabbriche dismesse, “recuperadas” dai lavoratori ed autogestiste. Zanchetta annuncia l’imminente uscita in Italia di un libro sul fenomeno. Riprendo qui un ampio stralcio del testo. (S.L.L.)
“Ora sappiamo quanto costano i padroni”. Questa frase, ascoltata nel corso di un’intervista radio a un lavoratore di una delle “fabbriche recuperate” argentine, mi colpì: esistono sempre due punti di vista fra due parti in conflitto ma la “comunicazione” (che non si identifica con l’”informazione”) in genere presenta solo quello di chi la controlla e ad esso ci assuefacciamo: “quanto costano i lavoratori”!
Parlare delle “fabbriche recuperate” - ma non tutti sono d’accordo su questa terminologia perché queste fabbriche dopo l’occupazione assumono un nuovo significato - significa parlare di uno dei fenomeni sociali più interessanti concernenti il mondo del lavoro, in particolare quello argentino dove il fenomeno ha avuto una inusitata diffusione a partire dalla crisi economica di fine XX secolo per espandersi nel 2001/2002 quando la crisi economica che aveva investito il paese toccò il fondo.
Oggi, a dieci anni di distanza, le fabbriche argentine dismesse (per usare un eufemismo) dai proprietari e riattivate dalle lotte dei lavoratori sono oltre 200 (205 a metà 2010 secondo un censimento dell’Università di Buenos Aires) con un totale di circa diecimila occupati. Ma il fenomeno non si limita all’Argentina; ad es. nel vicino e assai più piccolo Uruguay esse sono una quarantina. Sarebbe pertanto interessante una panoramica più ampia di quella stimolante relativa all’ Argentina che possiamo oggi leggere nel libro di Elvira Corona Lavorare senza padroni – Viaggio nelle imprese “recuperadas” d’argentina edito dalla EMI di Bologna.
Di queste il 33% lavora materie prime fornite dal cliente e quindi sono imprese di pura trasformazione, mentre le altre lavorano direttamente per il mercato. Il 13% lavorano per altre imprese recuperate ma solo l’8% vende i suoi prodotti allo Stato, contrariamente alla critica fatta inizialmente da alcuni che le denunciavano come imprese assistite da commesse di Stato.
Il libro propone il caso di 12 “recuperadas”, diverse fra loro per dimensione, settore operativo, contesto socioeconomico, soluzioni adottate ma con un punto in comune: la necessità di lottare per sopravvivere in una Argentina dove la disoccupazione nel 2001 aveva colpito più del 40% della popolazione attiva e dove la fame era un problema quotidiano reale. Altro punto in comune a queste esperienze, la grande difficoltà del percorso per giungere a riprendere la produzione. Importante in questa prima fase è stata in genere la solidarietà di vicinato, per vincere lo scoramento e l’isolamento, resistere agli attacchi della polizia, e per il contributo concreto con cibo e con piccoli servizi di sostegno.
Ebbi modo di conoscere la situazione del paese in quel periodo essendomici trovato per alcuni giorni proprio nel periodo del corralito (il blocco quasi totale dei depositi bancari) e, successivamente, in occasione di una lunga intervista ad alcuni appartenenti alla redazione della rivista “Herramienta” incontrati al forum di Porto Alegre. Intervista minuziosamente descrittiva senza alcuna interpretazione ideologica, come vollero sottolineare gli intervistati, sebbene il gruppo Herramienta sia fortemente politicizzato e ideologizzato. Essi mi dichiararono di voler restare sul piano descrittivo tanto grande era stata la sorpresa dell’esplodere della solidarietà sociale, di condominio o di quartiere o ancora più ampia, per aiutare i più colpiti dalla crisi. Ricordo un dettaglio del racconto: nel quartiere dove il gruppo ha la sede si decise, fra molte altre cose, di potenziare un piccolo panettiere rinunciando ad acquistare il pane al supermercato, consentendogli così di assumere pro tempore 4 o 5 abitanti del vicinato rimasti senza lavoro. E molti altri furono gli esempi che mi citarono.
Nel corso del mio breve soggiorno non mi ero reso conto del fenomeno delle fabbriche recuperate, che pure era in corso. Il primo caso di cui venni a conoscenza, mesi dopo, fu quello della Zanon di Neuquén, ribattezzata oggi Fasinpat (acronimo di Fabricas sin patrones), operante nel settore delle ceramiche. Essa conta oggi 420 persone mentre erano circa 200 prima del recupero. Sulla Zanon vennero fatti vari servizi giornalistici dato l’interesse suscitato da quella che sembrava un caso eccezionale, oscurando una realtà più vasta che è poi venuta poco a poco alla luce.
Il significato dell’esperienza
Per esperienza diretta so quanto sia radicato oggi il modello di impresa capitalistica, con proprietà privata e con dipendenti che a questa chiedono sicurezza del posto di lavoro e dignità di trattamento, ma non condivisione di responsabilità e di rischio. E so quanto sia difficile anche l’esperienza cooperativa, salvo in determinati settori.
Mi pare che gli ingredienti per una soluzione alternativa a questo modello siano correntemente due: lo stato di necessità e la presenza all’interno del personale di un nucleo di persone più determinato e politicizzato.
Come detto la casistica è assai diversa ma si possono rilevare, dopo una esperienza che in media dura ormai di 10 anni, alcuni dati interessanti comuni a più realtà:
- l’uguaglianza del salario dei soci, quali che siano le loro funzioni, oppure una differenziazione modesta per chi assolve compiti più gravosi; questa è la prassi del 73% delle “recuperadas” argentine;
- l’esercizio effettivo di democrazia dovendosi decidere collettivamente aspetti gestionali e economici in ordine alla strategia aziendale;
- la rotazione delle mansioni in modo che si sviluppi una competenza diffusa e scompaia la specializzazione individuale spinta che impedisce di avere una visione di insieme;
- l’attenzione per la promozione sia professionale che culturale degli operatori;
- la relazione sociale con la comunità circostante, forse derivante dall’esperienza della solidarietà ricevuta durante il periodo più duro del blocco all’esterno dello stabilimento e della occupazione iniziale (il 35% delle imprese organizzano eventi culturali e attività educative, il 30% fanno donazioni alla comunità e il 24% collaborano con organizzazioni di quartiere;
- la collaborazione talora prestata dal mondo accademico, in molti casi essenziale per poter meglio definire il progetto e le strategie.
Alcune problematiche
Le aziende recuperate operano in un contesto generale di tipo capitalista che in certa misura ne condizionano le strategie. Talora portano dietro retaggi e modelli di vecchio tipo, con la conseguente relazione conflittuale fra autorità e potere, fra chi è delegato a ricoprire mansioni direttive e chi ad eseguire.
Altro problema che il libro di Elvira Corona evidenzia è quello del quadro legislativo, impreparato a una gestione chiara dei processi di esproprio, di autorizzazione ad operare alle cooperative etc, e complicato dalla natura federale dello Stato argentino che concede larghe autonomie legislative alle Provincie. Qui un passo avanti forse decisivo è stato compiuto nel giugno 2011 dallo Stato centrale della nuova Ley de quiebras (legge sul fallimento) che unifica e in certo modo accelera i vari passaggi del processo di autorizzazione legale ad operare.
Una conclusione
L’attuale crisi economica dovrebbe farci riflettere su queste esperienze e aiutare a avviare processi che alla fine non sono solo di stretta necessità economica ma anche culturale. Infatti, come hanno dichiarato alcuni intervistati, l’esperienza dell’autogestione porta a travalicare la situazione di necessità aprendo a una esperienza di vita diversa, più rischiosa ma più responsabile.
Anche se, come scrive Raúl Zibechi , “qualcuno ha detto che l’emancipazione non è una strada rettilinea o, ciò che è lo stesso, l’emancipazione presuppone rivoluzioni culturali che non si costruiscono in due settimane.” E alla fine “le fabbriche recuperate sono spazi di innovazione e creazione culturale. Questo non costituisce una questione minore né un complemento della produzione. Al contrario, è l’aspetto più importante che noi che aspiriamo a un mondo nuovo dobbiamo risolvere: creare una cultura politica e di lavoro diverso a quella individualista attuale, che pensa solo al guadagno, al consumismo e all’accumulazione di ricchezza, Il cambiamento culturale, lento e complesso, è quello che può costruire le nuove sfide di quest’altro mondo possibile.”
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