Il testo che segue risale ai primi anni Duemila. Non portai a termine il racconto, sebbene un finale lo avessi in mente: mi pareva comunque sconclusionato. Il lavorìo sulla costruzione, sulla lingua e sullo stile era teso a una mimesi espressionistica. Ma il risultato mi sembrò un totale fallimento; perciò interruppi, senza alcuna tentazione - dopo - di rimaneggiare.
Ora, rovistando nelle memorie informatiche, ho ritrovato il file e ho deciso di sottoporre il testo alla lettura e all'eventuale stroncatura di qualche visitatore del blog. Cerco soprattutto risposte a una domanda: se la storia minimalista che vi si racconta (senza un finale - che però in qualche modo s'indovina) meriti in qualche modo di essere ripresa, magari con una impostazione narrativa e stilistica affatto diversa. (S.L.L.)
Per evitare malanni mangia meno;
per allungare l'esistenza preoccupati meno.
Chu Hui Weng
1. Dal barbiere
“Ha telefonato mia moglie dall’ospedale, proprio adesso. Sta tornando a casa. Non c’è più ragione di star lì. Quel che è fatto è fatto”.
“Si salverà?”.
“E chi lo sa? E’ sotto i ferri. .. ma dicono che è brutta”.
“A me lo dici, che l’ho vista con i miei occhi? Perdeva un sacco di sangue. Ma magari tutto quel lardo ha attutito il colpo”
“Lui che faceva?”.
“Stava lì, seduto sul marciapiede davanti al portone. Avevano chiamato i carabinieri. L’avranno preso ”.
“Poveretto! Non se lo meritava ”.
“Io lo conoscevo di vista. Lo incontravo al supermercato, lo salutavo, ma non so neanche che mestiere faceva ”.
“E’ imbianchino, prende appalti da un’impresa. Più che altro lavora in Toscana, a Siena, Cortona, Arezzo… Ogni mattina alle sei e mezza carica il furgoncino e parte. Quando torna, va a fare la spesa. Si porta dietro il figlio piccolo, che ha qualche problema. Lei non si può muovere”.
“Me l’immagino. Peserà almeno centocinquanta chili”.
“Tu a Forniello sei arrivato da poco. Ma essa non aveva voglia neanche prima, quand’era normale. Passava il tempo seduta, a mangiare, a guardare la televisione e a telefonare. Così s’è ingrassata”.
“E lui com’è?”.
“Buono come il pane. Lo conosco da bambino, eravamo compagni di scuola. Tra il lavoro, la spesa, i figli, non ne poteva più. Una sera mi ha chiamato per tagliargli i capelli fuori orario, a casa sua. Io non li fo i servizi a domicilio, ma con lui ho fatto un’eccezione. Mi s’è sfogato. Quasi quasi piangeva”.
“La cena la preparava lui?”.
“No. Cucinava il padre, povero vecchio! Dava tutta la pensione e intanto doveva governare la casa, spazzare, vestire i figlioli. Lo aiutava lui il babbo nelle faccende, al ritorno dal lavoro. E lei seduta! Ma lui ci teneva molto alla pulizia. L’hai veduta la casa?”.
“Sì che l’ho vista. E’ piccola, ma ordinata e pulita. Non l’avrei mai creduto che non c’era la mano di una donna ”.
Paziente sotto la macchinetta che mi tosa il mento, riducendo a due millimetri la barba di tre mesi, m’incuriosisco del dialoghetto tra il figaro e un tale a me sconosciuto.
“Cos’è successo, di preciso?” - domando.
“Niente – fa il barbiere – uno ha sparato alla moglie, al mio paese ”.
“Corna?”.
Ride. “Macché corna. L’avesse visto! E’ alta un metro e quaranta e pesa centocinquanta chili. Chi ci si mette con quella? ”.
Uomo di mondo, replico: “Lei non sospetta neppure quante perversioni ci siano in giro”.
“Gliele metteva le corna. In un altro modo. Telefonava a questi maghi che si vedono in televisione. Ce n’era uno con cui parlava in continuazione, con il 166. Stamattina, appena lui ha visto tre milioni di bolletta, ha preso il fucile da caccia del padre e le ha sparato”.
L’altro commenta: “Il guaio è che ha sbagliato la mira. Quando si fanno le cose, bisogna farle per bene. Sai cosa ha detto la disgraziata, appena siamo arrivati su?”.
“No”.
“Si lamentava, si lagnava, per una telefonata! per una telefonata!”.
“Se era una, doveva essere lunga” – commento mentre mi spruzzano di aromi.
2. L’ira dei miti
Le gazzette dell’indomani non abbondavano di particolari. La cifra era stata aumentata a cinque milioni e si dava conto della linea di difesa dello sparatore. A detta dell’avvocato il pover’uomo non intendeva uccidere, ma solo spaventare. Il colpo era partito per accidente.
Una nota commovente poté invece leggersi qualche giorno più avanti. L’intervento era riuscito, ma i medici si riservavano la prognosi. Il titolo enfatizzava gli accenti accorati della grassona sul banco dei chirurghi: “SALVATEMI! HO DUE BAMBINI!”. Il feritore restava in prigione con l’accusa di “tentato omicidio colposo”. A me, che, nell’intento di seguire gli sviluppi della vicenda, avevo preso il vizio di scorrere al bar le cronache locali, la formula risultava enigmatica, mi pareva che il “tentato” contenesse un’intenzione incompatibile con la colposità. “Qualcuno – pensai - deve aver sbagliato: o la legge o il magistrato o il cronista”. Ma non valeva la briga d’appurarlo, m’appassionava di più la dinamica interna del fatto.
Quali inghippi fisiologici, mentali, esistenziali avevano indotto la femmina a quell’abulia patologica, a quell’insaziata voracità? Quali bisogni reconditi l’avevano consegnata ad astrologhi e cartomanti? Chi, come, con quali sottili raggiri, aveva trasformato in aberrazione l’umanissima disposizione a cercare nelle stelle, nei tarocchi, nei fondi di caffè, negl’interstizi dei sogni, un ristoro a sopportare un presente soffocante, a restituire interesse e speranza per un futuro altrimenti sgradevolmente prevedibile?
E finalmente m’interessava lui, lo sparatore, da tutti presentato come probo, onesto e laborioso, economo e senza vizi, condiscendente fino all’esagerazione. La saggezza popolare avrebbe catalogato il suo gesto tra le collere dei miti, quelle che più devono temersi, giustificate dal quanno ce vo’ ce vo’. Ma, diffidente del senso comune, affezionato ai paradossi e alle idee estreme, ne derivavo una diversa dottrina: la mitezza è socialmente pericolosa e i miti, se non reclusi in appositi lager, dovrebbero almeno essere maneggiati con cura e disinnescati, come mine inesplose o bombe a scoppio ritardato.
3. Cronache
Passarono ancora tre giorni e il barbiere che, quando mancano i clienti, sta sempre davanti alla bottega, mi chiamò: “Venga, dottore! Devo farle vedere una cosa.”.
Era l’ultimo numero di “Cronaca nera”.
“HO SBAGLIATO, MA NON DOVEVA FARLO! ” – recitava greve il titolone.
C’erano le foto di lei, una sul letto dell’ospedale ed una di quando, più giovane, non appariva così esageratamente pingue. Dello sparatore il giornale riproduceva un ritratto formato tessera certamente stravecchio: poco più che adolescente, con il suo maglione bianco a girocollo e gli occhi sognanti rivolti al cielo pareva san Luigi Gonzaga in cotta. Il quotidiano locale aveva pubblicato un’immagine più recente, che esibiva guance scarne, fronte raggrinzita o per lo meno aggrottata, baffetti sottili, giubbotto scuro, sguardo in avanti, affatto inespressivo per via degli occhi spenti. Non l’avresti detto la stessa persona.
L’articolo era lungo tre pagine. Ci avevano schiaffato il down e, a commento, la scritta “NON LASCIATELO SOLO!”. Nel testo, dopo le ordinarie melensaggini (un’indigenza inventata, lo stupore del vicinato, la perizia del chirurgo), spiccavano, in un’intervista tra lacrimevole e pettegola, le risposte della miracolata, in sciatto stile colloquiale.
“Dovrà chiedermi perdono. Ho sbagliato, ma non si spara contro la madre dei propri figli...”
“E’ una fattura. E’ stata la ex di mio marito: è lei che mi ha fatto nascere il figlio handicappato e mi ha fatto ingrassare così. Anche quest’ultima disgrazia è colpa sua. Io non la vedevo da tre anni, ma lui la incontrava al bar, me l’hanno detto. Me l’ha messo contro…”
“Lo so che si è sposata, ma mi odia lo stesso. Non l’ha mandata giù”.
4. Formaldeide
La donna rapidamente migliorava. Nel giro di pochi giorni sarebbe stata dimessa ed avrebbe riabbracciato i figliuoli, che nel frattempo, in cura di una sorella di lei, erano vissuti a Cuneo. Anche le notizie sul marito erano buone: aveva ottenuto la libertà provvisoria. Ma a casa non poteva tornare; gli avevano imposto di eleggersi un domicilio ad almeno cinquanta chilometri di distanza e lui aveva chiesto ed ottenuto ospitalità da una zia paterna nel Cortonese.
Lo spazio sulle pagine locali si era notevolmente ridotto. Era forse l’ultima volta che la storia compariva, i due sventurati coniugi stavano per essere rituffati nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
Il barbiere mi riferì le ciarle del paese. Anche il vecchio se n’era andato ad abitare dalla sorella e lì sarebbe rimasto. Lo sparatore invece sperava di riconciliarsi, di perdonare ed ottenere perdono, di tornare a casa coi figli. L’avvocato garantiva che, con una condotta irreprensibile e il consenso della moglie, in un paio di mesi tutto si sarebbe risolto.
Ma dal conciapeli pretendevo di più: strappargli un’informazione precisa sull’allocazione clinica della vittima. Sentivo di sentire per lei un’attrazione insolita, una morbosa tenerezza; meditavo di andarla a trovare nel letto d’ospedale, a tu per tu, vis-à-vis, solus ad solam, prima che il ritorno a casa la risucchiasse nella routine, e speravo così di impedire che il nuovo, obbligato rapporto con figli e parenti le togliesse ogni spontaneità e la mettesse in maschera.
Non mi riuscì difficile: “Chissà come la trattano le compagne di stanza in ospedale!”.
“Non ha compagne - disse - le hanno dato una singola a Patologia Chirurgica. All’inizio era per la riservatezza delle indagini, poi ce l’hanno lasciata. C’è andata mia moglie ed essa era contentissima. Dice che l’assistenza è buona, ma si lamenta perché è sola. I primi giorni arrivavano in tanti, parenti, vicini, gente che conosceva appena, tutti curiosi di vederla. Anche i giornalisti, sa? Lei si sentiva considerata. Ma ora non ci va più nessuno”.
“E il telefono in camera ce l’ha?”.
“Sì, a lei dovevano mettere il telefono!” – soggiunse sarcastico.
Al Policlinico, com’era nei voti, la trovai sola nella cameretta. Mi presentai col nome e cognome, dicendo di volerla conoscere.
“Giornalista?”.
Aspettai un po’ prima di risponderle a causa del disinfettante sparso sul pavimento lindo. Potrei sbagliarmi, ma doveva trattarsi di aldeide formica. L’odore m’irritava le nari e mi bruciava la gola come, da bimbo, le pasticche di Formitrol nelle tonsilliti. Pare servissero a rimarginare le piaghe dell’infezione. Chissà che anche adesso quelle fastidiose esalazioni non fossero salutifere.
Ma l’esitazione nasceva anche dalla difficoltà di trovare una formula che me la facesse amica, che l’invogliasse ad aprirsi.
“Scrivo anche sui giornali - dissi - di tanto in tanto, ma su di lei vorrei scrivere un libro”.
“Si accomodi, prego. Sulla mia vita ne può scrivere dieci ”.
Aveva buona cera, faccia circolare e grande, con gli accessori proporzionati e coordinati, il naso soprattutto, grande, a patata. Non era sfera il viso, né ovale da rugby, ma ciambella piatta, pagnotta d’Abruzzo, senza rilievi o fossati. In antitesi con le pianure del volto e le dolci curve dei contorni il parlare era variato, tagliato e tagliente: sarda, mi rammentava Berlinguer. Sotto il lenzuolo lindo intravedevo la mole massiccia: i chili non erano più centocinquanta, ma continuava a superare il quintale.
La conversazione fu breve. Stavo ascoltando dettagliate informazioni su cicatrizzazioni interne ed esterne, quando il grido allegro di un’infermiera ci sorprese: “Bisogna uscire, signore. E’ l’ora della medicazione”.
“Aspetterò fuori ”.
“Non si disturbi – disse la grassona – sono in uscita. Venga domenica a casa mia. Avremo più tempo. C’è mia sorella a tenere i bambini. Li manderò tutti a fare una passeggiata ”.
Sul comodino teneva carta e penna. Con sforzo si mise seduta, mostrando parte delle ridondanze. Scrisse e porse: “E’ l’indirizzo completo”.
“Verrò senz’altro”.
“Alle tre del pomeriggio”.
5. Fratelli e sorelle
La sorella non le somigliava per nulla, magra, collo lungo, faccia cavallina, l’accento sardo inquinato da inferenze continentali del Nord-Ovest, alta ed alticcia, non saprei dire se di vino o del suo.
“Oh, è il famoso scrittore? Mia sorella mi ha tanto parlato di lei, ma me l’immaginavo diverso, coi capelli rossi, un po’ calvo e con le spalle larghe. Che cosa scrive, storie d’amore, gialli? Oh, ma è ancora fermo lì, sulla porta? Si accomodi, si accomodi. Oh, che bel mazzo di fiori! Sono per Giulia, vero? Sempre così, sempre a lei i fiori, a me niente. Ma quando avrà finito il libro per Giulia ne scriverà uno per me, vero? Ma che fa lì? Entri, s’accomodi! Giulia l’aspetta. Sapesse com’è gasata per questa visita! Stanotte non ha chiuso occhio. Come se aspettasse un innamorato… Ah, ah, ah!”.
Rideva, parlava, e, mentre m’investiva e mi asfissiava, continuava a sostare sulla soglia e ad impedirmi l’accesso che pure sollecitava.
Poi, nel corridoio, incontrai i bambini, sull’uscio di quella che, a giudicare dall’ornamento, doveva esserne la cameretta. Mi osservavano con curiosità, ma il più grande, di sette od otto anni, appariva del tutto normale, cioè insignificante, nello sguardo senza luce, identico a quello della foto paterna, e nell’abbigliamento sportivo griffato; il down, invece, sprizzava ilarità da ogni parte, dagli occhi strambi e sghembi, come dalla bocca deforme e dal collo tozzo e storto. Inondato di gioia e intenerito gli prestai una carezza e un ganascino molto soft. Sembrava gradire.
La giumenta sardegnola senza posa blaterava, mentre m’intrattenevo col piccino. Afferrai soltanto le ultime parole: “Venga! Giulia lo sta aspettando”.
Fui introdotto nel soggiorno, ove su una bassa poltrona a braccioli ella sedeva come su un trono, solenne e serena come una primavera ubertosa, una dea dell’obesità e della sovrabbondanza, elegante nella gonnella scozzese appena sopra il ginocchio e nella camicetta bianca di seta con maniche a tre quarti. Teneva sulle gambe un libro fotografico su Mina ed esibiva benignità. La faccia ora richiamava i lieti frollini a forma di volto che per ciò dovrebbero essere più graditi ai pargoli, oppure il sole gaio delle liste verdi, o forse, più precisamente, i ridenti visi di stoffa che si cuciono sui maglioni dei pargoli, circolari come l’O di Giotto e con le mezzelune delle bocche sproporzionatamente grandi, a corna levate per segnare la sillaba breve dell’allegria.
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