6.9.12

Gli Usa, Mani Pulite e la Seconda Repubblica

Il 29 agosto scorso “La Stampa” pubblicava un articolo del suo corrispondente dagli Usa, Molinari, che riferiva delle sue conversazioni con Reginald Bartolomew, ambasciatore a Roma della superpotenza americana negli anni 1993-97, di Mani Pulite e della fine della cosiddetta Prima Repubblica. Molinari si è spesso occupato dei condizionamenti Usa sulla politica italiana ed è stato anche altre volte autore di interessanti rivelazioni, ma quanto scrive adesso su quegli anni, sulla scorta di una testimonianza di prima mano, anche se conferma l’immaginabile, è cosa di grande importanza. Per esempio svela su quali uomini puntassero gli Usa per garantire i propri interessi nella nuova fase politica. “Posterò” – credo oggi stesso – parte di una successiva intervista a commento di Rino Formica, rilasciata al quotidiano torinese. Spero che qui o altrove altri intervengano con testimonianze o analisi: che la crisi del 1992-94 fosse pilotata ora mi pare indiscutibile, ma c’è da ragionare anche sugli esiti. (S.L.L.)
P.S.
Non mi risulta che da parte degli uomini politici che l’ex ambasciatore scelse, ritenendoli affidabili per l’Impero, ci siano state smentite sdegnate. Segno che tuttora continuano a considerare il “rapporto speciale” con gli Usa un titolo di merito, anche a scapito degli interessi nazionali. L’Italia è una “provincia dell’Impero”, neppure tanto considerata, non solo oggettivamente, ma soggettivamente, cioè perché come tale la trattano i capibastone del ceto politico e come agenti americaNI si comportano. (S.L.L.)
Massimo D'Alema e Reginald Bartolomew 
a una festa francese di Palazzo Farnese.
Foto di Marcellino Radogna
Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro Governo Ombra, sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza.
Raccolsi il suo racconto – che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite». Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro.
Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica - a cui aprì le porte dell’Ambasciata - e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto.
Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma. «L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce.
In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato. «Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato
sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo.
«Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando
sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato». Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto. Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite».
Bartholomew non fa i nomi dei
giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone».
Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite».
Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò - rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia».
Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo».
L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione - dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».
L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”».
Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di “Repubblica”, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi».
A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.
Maurizio Molinari 

“La Stampa”, 29 agosto 2012

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