Il papa cattolico con il presidente libanese |
«Il fondamentalismo è sempre una falsificazione delle religioni» – ha detto Benedetto XVI all’inizio del suo viaggio in Libano del 14 settembre, riferendosi alle proteste violente dei fondamentalisti islamici per un film contro Maometto -, «perché Dio invita a creare pace nel mondo e compito delle fedi è creare la pace».
Tutto il contrario di quando il Concilio di Vienne intimava ai principi cattolici di vietare ai Saraceni riunioni in templi o moschee «per adorarvi il perfido Maometto» (1311-12) o di quando il Santo Officio decretava che «Amico di Dio è chi uccide i nemici di Dio» (1605).
Una lunga scia di sangue
L’ intolleranza verso eretici e infedeli si manifestò fin dalla nascita del cattolicesimo. Appena dodici anni dopo l’editto di Milano (313), che concedeva ai cristiani libertà di culto, il Concilio di Nicea condannò a morte chi conservava i libri dell’eretico Ario. Venti anni dopo il neoconvertito Firmino Materno esortava gli imperatori ad abbattere i templi pagani.
La lotta contro gli infedeli fu poi condotta soprattutto attraverso la guerra contro i sassoni, le crociate, l’evangelizzazione forzata delle Americhe, l’attività “missionaria” al seguito delle potenze coloniali, la persecuzione degli ebrei; mentre la repressione degli eretici fu dapprima lasciata alle autorità civili, poi gestita insieme a loro o in proprio attraverso spedizioni militari, guerre di religione, i tribunali dell’inquisizione, i processi alle streghe.
Dio lo vuole
Un argomento spesso usato per giustificare le uccisioni di eretici e infedeli è che, come insegna la Bibbia, sono volute da Dio. Scrive Agostino: «Cosa Mosè compì o ordinò di tanto crudele quando, pieno di santo zelo per il popolo a lui affidato … avendo saputo che si era abbandonato a fabbricare e adorare un idolo … si vendicò con la spada su pochi che Dio stesso, che avevano offeso, nel suo profondo e segreto giudizio aveva voluto che venissero assaliti e abbattuti?» (Contro Fausto Manicheo, libro XXII, 74-79, 397-8).
E ancora il Catechismo romano del 1566, a proposito degli israeliti uccisi dai figli di Levi perché si erano dati all’idolatria, scrive: «i leviti non peccarono … quando uccisero per ordine del Signore migliaia di persone; meritarono anzi l’elogio di Mosè» (§ 328). Un Dio evidentemente tutto diverso, neppure lontano parente, di quello mite e pacifico adorato da Benedetto XVI.
Meritano la morte
Un altro e ancor più decisivo argomento, specie nel caso degli eretici, è che la morte costituisce una giusta punizione per la loro colpa. A sostenerlo fu soprattutto Tommaso d’Aquino per il quale gli eretici «hanno meritato … di essere tolti dal mondo con la morte» perché hanno corrotto la fede «in cui risiede la vita dell’anima». Ciò è assai peggio che «falsare il denaro, con cui si provvede alla vita temporale». Perciò se vengono condannati a morte i falsari tanto più è giusto che lo siano gli eretici. Quanto ai recidivi: «Se essi si ravvedono, vengono accolti con il perdono, ma non liberati dalla pena di morte» (Somma teologica, IIa, IIae, q. 11). Da ricordare, per inciso, che non toccava agli inquisitori provare l’accusa, ma all’eretico dimostrare la sua innocenza.
In conclusione a fondamento della condanna vi è l’identificazione del peccato con il reato, tipica di ogni stato confessionale, fondato su una qualche sharia. Uno stato cui ancora oggi la Chiesa aspira (vedi campagne contro le unioni di fatto, sul fine-vita ecc.).
Delazione, tortura, espropri
La lotta contro l’eresia era quindi un dovere per il credente, come stabiliva il Concilio Laterano IV (1215): «I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici godano delle indulgenze e dei santi privilegi …. quelli che prestano fede agli eretici, li ricevono, li difendono, li aiutano, siano soggetti alla scomunica». E il Manuale dell’inquisitore di Eymerich del 1376 spiega che è premiata con indulgenze la delazione, mentre la mancata delazione è punita con la scomunica.
Inoltre per far confessare gli eretici e i loro complici fu autorizzata la tortura, introdotta da Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda (1254) e divenuta pratica costante. Nel 1557 Paolo IV, col Decreto I del Santo ufficio, tranquillizzò i chierici che partecipavano ai processi contro gli eretici e agli “interrogatori”, dando loro «licenza e facoltà … di emettere voti e sentenze che non solo comportino interrogatori e torture nei confronti dei rei … ma anche una pena appropriata e una condanna fino alla mutilazione o al versamento di sangue fino alla morte naturale inclusa».
Infine agli eretici si comminavano, oltre la morte, la confisca di tutti i beni e la distruzione delle case in cui si rifugiavano. Da misure analoghe erano colpiti secondo le Costituzioni papali sull’Inquisizione anche i loro figli, benché «fedeli alla dottrina», come precisa Innocenzo III nella bolla Vergentis del 1199, con logica che ricorda il dogma del peccato originale dei progenitori fatto pagare a tutta l’umanità.
E poi è per il loro bene
Ma non è facile far accettare l’idea che un eretico sia equiparabile a un assassino, o che l’inquisizione sia consona a una «religione dell’amore». Di conseguenza nel mondo cattolico si è sviluppato – insieme alla giustificazione dell’omicidio per ragioni di fede – il tentativo ipocrita di negare la realtà o rovesciarla.
Così la formula con cui gli inquisitori affidavano l’eretico al braccio secolare perché fosse messo al rogo, era: «Ti abbandoniamo al braccio secolare e al suo potere, allo stesso tempo preghiamo questa curia secolare di non giungere nella sua sentenza fino alla effusione del tuo sangue e alla pena di morte». Una «vile ipocrisia» (Lea), cioè l’esatto contrario di quanto si voleva tanto è vero che quando le autorità civili anche solo tardavano nell’eseguire la sentenza di morte rischiavano di essere processate a loro volta per eresia!
Un altro modo di occultare la verità era poi di dire che sì, gli eretici venivano uccisi. Ma per il loro bene. Così nel XVI secolo il teologo Clemente Dolera, riprendendo Tommaso d’Aquino, scrive che mandare a morte gli eretici pertinaci «era considerato un favore perché si toglieva loro la possibilità di continuare ad abusare della grazia, aumentando le proprie responsabilità davanti a Dio» (in Dottrina ecclesiologica del cardinale C. D., L’Inquisizione, Città del Vaticano 2003).
Un monumento di ipocrisia
In questa lunga storia di omicidi per ragioni di fede, legittimati in punta di dottrina, si sono formate una chiesa e una religione irrimediabilmente impastate di intolleranza e di ipocrisia. Non stiamo infatti parlando, come l’apologetica cattolica vorrebbe far credere, di qualche episodio sporadico, remoto nel tempo, ma di pratiche che non solo hanno prodotto un numero incalcolabile di vittime (si parla di venti milioni solo per le crociate) ma sono state giustificate e sono continuate ininterrottamente, con maggiore o minore intensità, dal Concilio di Nicea (325) alla chiusura degli ultimi forni dell’inquisizione (1808) e alla presa di Roma (1870), ossia per tutta la vita bimillenaria della Chiesa, tolta una manciata di anni.
Significa che per 1500 anni circa sui 1700 scarsi in cui la Chiesa cattolica ha operato liberamente (cioè per quasi il 90% della sua esistenza) il cattolicesimo ha compiuto e teorizzato delitti per ragioni di fede che hanno visto coinvolti (nell’eseguirli o nel sostenerli, condividerli, giustificarli almeno) 223 papi su 233 (96%) e la grandissima parte dei vescovi e dei preti succedutisi in venti secoli.
Difficile credere che ciò non abbia plasmato e improntato di sé una Chiesa che, per di più, fondamentalista lo è ancora, dato che tenta ancora di imporre la sua morale allo stato laico e a tutti i cittadini, benché senza ricorrere al rogo. Altrettanto difficile credere che questa Chiesa, sia tutta pace e miele come Benedetto XVI ce la dipinge, «santa e immacolata» (Catechismo della Chiesa cattolica, § 1426), dotata «del carisma dell’infallibilità in materia di fede e di costumi» (ibid., § 890), «colonna e sostegno della verità» (ibid., § 2032), e non invece un monumento di ipocrisia.
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