27.9.12

La caduta di Bisanzio? Tutta colpa della Vergine (Augusto Fraschetti)

Augusto Fraschetti è storico dell’antichità di valore, autore tra l’altro di una biografia di Marco Aurelio che ribalta secoli di luoghi comuni. Questo suo breve scritto sulla fine degli imperi, in margine a un servizio del settimanale “L’Europeo” del 13 settembre 1979 sui Bizantini e sulla caduta di Costantinopoli, è anche un ragionamento sulla concezione “biologica “ della storia tipica degli antichi. (S.L.L.)  
La notte in una miniatura bizantina
L'Atene di Pericle, di Fidia e di Socrate si spossa, fino a soccombere, di fronte alla Sparta dei re e degli iloti, di fronte ad una città che ha adottato l'arcaismo quasi come stile di vita. Il vecchio impero di Dario e di Serse, dei grandi e splendidi palazzi, dei fuochi sacri e perenni di Ahura Mazda, viene conquistato dal giovane Alessandro, sceso dall'impervia Macedonia, terra di greggi e di pastori: una sorta di Piemonte dell'antichità. L'impero romano d'occidente, questo scomodo paradigma che ci viene continuamente riproposto, dopo innumerevoli tentativi di invasione e la perdita effettiva di gran parte dei territori controllati, sembra finire come per caso: quando un generale barbaro, di nome Odoacre, depone un imperatore, di nome Romolo Augusto, e non ne proclama un altro, limitandosi a rinviare le insegne del comando al sovrano d'oriente. Circa mille anni dopo, ha termine anche l'impero d'oriente, questa terra dove si discute sul sesso degli angeli e si compongono splendidi mosaici: conquista Bisanzio il giovane Maometto II, quasi un nuovo Alessandro.
Ma queste sconfitte sono dovute alla vecchiaia, ad un oggettivo indebolimento interno, oppure hanno rappresentato delle cesure nette, traumatiche, decise sul campo di battaglia? André Piganiol, uno storico francese legato alla scuola delle "Annales", dopo il 1945 poteva scrivere che la civiltà romana non era morta di morte naturale, ma assassinata dai germani.
Se per quanto riguarda la scomparsa di grandi civiltà la tesi dell'assassinio è moderna, al contrario la tesi della caduta per sfibramento, per consunzione, per una fine quasi biologica, appare nel mondo antico come quella più diffusa. Per gli antichi, soprattutto i Romani, se l'uomo ha una sua vita e questa sua vita si compone di vari stadi dalla nascita alla morte, anche le città, anche gli imperi hanno una loro vita, e tutti sono destinati naturalmente a morire. « La prima infanzia di Roma », scriveva Seneca il vecchio, « fu sotto Romolo, il suo fondatore... La sua adolescenza finì con la fine delle guerre puniche ». Una volta applicata coerentemente, una simile teoria doveva prevedere anche la morte di Roma. Se non esiste progresso indefinito, ma solo cicli quasi biologici, quanto più una città si sviluppa, tanto più si accosta la sua vecchiaia, il suo termine inevitabile. In mancanza di una concezione di reale progresso, gli imperi e le città egemoni tendono a succedersi continuamente, in un susseguirsi malinconico.
Dopo l'impero macedone e quello cartaginese, ecco l'impero di Roma ed il suo erede di Bisanzio, tutti fin dalla nascita destinati ad immancabile catastrofe. Possiamo comprendere lo sconforto di Costantino XII, l'ultimo imperatore d'oriente: pochi giorni prima, gli bastarono due segni per comprendere che la città sarebbe stata presa dai Turchi: la caduta a terra dell'icona della Vergine, portata in processione in una Bisanzio ormai in preda al panico, e lo scoppio di un temporale.

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