Ernesto Sábato |
La “Biblioteca minima”, una bella collana di piccoli libri, fu una sorta di canto del cigno per gli Editori Riuniti, la storica casa editrice del Pci.
Tra i suoi titoli apparve nel 1986 Approssimazioni alla letteratura del nostro tempo. Borges, Sartre, Robbe- Grillet, un trittico di brevi saggi, scritti e pubblicati in rivista da Ernesto Sábato tra Parigi e Buenos Aires negli anni 60, già messi insieme in un volumetto argentino degli anni 70.
Il primo dei saggi, dedicato a Jorge Louis Borges (I due Borges), fa i conti con il mostro sacro della letteratura argentina, maestro d’invenzione e di stile e tuttavia considerato un campione dell’evasione geometrica, della pura astrazione e per ciò stesso del disimpegno dalla nuova generazione di scrittori latino-americani, campioni del cosiddetto “realismo fantastico”, assai più attento alla vita concreta e alla sofferenza delle moltitudini umane. Sábato ipotizza l’esistenza di due Borges, di cui uno (quello metafisico), soffoca l’altro (quello di carne e d’ossa) senza tuttavia riuscire ad ucciderlo. Posto qui l’ultima parte. (S.L.L.)
Jorge Louis Borges |
Nel mito del Fedro Platone racconta come l'anima precipiti a terra quando già intravedeva l'eternità; caduta e condannata alla sua prigione corporea, ha dimenticato il meraviglioso mondo celeste, ma le è rimasto qualcosa di quella fraternità con gli dei: l'intelligenza. E questo strumento divino le fa comprendere che l'universo contraddittorio in cui vive è un'illusione, e che al di là degli uomini che nascono e muoiono, degli imperi che sorgono e crollano, esiste il vero universo incorruttibile, eterno, perfetto.
Il vizioso Socrate, l'uomo che profondamente (e forse drammaticamente) sentiva la precarietà del suo corpo avvilito e delle sue torbide passioni, sogna quell'universo impeccabile e incita gli uomini a scalarlo con la metafora dell'eternità che i mortali hanno inventato: la geometria.
E anche Borges, il corporale Borges, il sentimentale Borges, che forse soffre drammaticamente per le sue precarietà fisiche, un essere che come molti artisti (e molti adolescenti) cercò l'ordine nel tumulto, la calma nell'inquietudine, la pace nella sventura, per mano di Platone cerca d'accedere all'universo incorruttibile. E allora costruisce racconti in cui fantasmi che dimorano in rombi o biblioteche o labirinti non vivono né soffrono se non di parole, perché sono estranei al tempo, e il tempo e la morte sono sofferenza. Essi sono appena il simbolo di quel marmoreo aldilà.
Sembra senz'altro che per Borges l'unica cosa degna d'una grande letteratura sia il regno dello spirito puro, mentre in realtà ciò che è degno di una grande letteratura è lo spirito impuro, cioè l'uomo, l'uomo che vive in questo confuso universo eracliteo, non il fantasma che risiede nel cielo platonico. Dato che caratteristica dell'essere umano non è lo spirito puro, bensì quell'oscura e lacerata regione intermedia dell'anima in cui si svolge ciò che v'è di più grave nell'esistenza: l'amore e l'odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno; niente che sia strettamente spinto, bensì una veemente e turbolenta mescolanza d'idee e di sangue, di volontà cosciente e d'impulsi ciechi. Ambigua e angosciata, l'anima soffre fra la carne e la ragione, dominata dalle passioni del corpo mortale mentre aspira all'eternità dello spirito, perpetuamente oscillando fra il relativo e l'assoluto, fra la corruzione e l'immortalità, fra il diabolico e il divino. L'arte e la poesia sorgono da quella confusa regione e a causa di quella stessa confusione.
Perciò non ci serve l'oppio platonico di Borges. E alla fine ci sembra un gioco, una finzione, un'evasione infantile. Se anche quel mondo fosse il vero mondo, confermato dalla filosofia e dalla scienza, il mondo di quaggiù sarebbe per noi l'unico vero, l'unico che ci dà sventura, ma anche pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, d'amore e di morte in cui quotidianamente vive la nostra carne è l'unico spirito che possediamo realmente: lo spirito incarnato.
È il momento in cui Borges scrive (in modo bello e commovente), dopo aver confutato il tempo: «And yet, and yet... Negare la successione temporale, negare l'io, negare l'universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. [...] Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi travolge, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono reale».
In questa confessione finale è il Borges che vogliamo preservare, l'ammirevole poeta che rimarrà. (“L'Herne”, Parigi, 1964)
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