La morte del cardinale Martini ha suscitato non poche polemiche, anche per le modalità con cui è avvenuta, cioè con il rifiuto di sondini e di respiratori che – secondo la tesi ufficiale dei preti cattolici – si dovrebbero applicare al malato incosciente, perfino se lo stesso, in piena coscienza, aveva lasciato scritte indicazioni diverse. Del tema Martini aveva ragionato col cardiochirurgo e deputato piddino Ignazio Marino in un libro recente con un approccio problematico e aperto, assai diverso da quello predominante nella preterìa. Questo spiega il perché Martini sia facilmente diventato un eroe per il residuale cattolicesimo conciliare e uno spauracchio, un mezzo diavolo per i più integralisti, mentre l’atteggiamento prevalente nella Chiesa ufficiale sembra quello di ridimensionare la sua distanza dagli orientamenti ratzingeriani, valutandolo come un vescovo cattolico di grande umanità e cultura, sebbene un po’ troppo dialogante con i miscredenti.
La mia impressione è che tra i cosiddetti “laici” la diversità di Martini sia sopravvalutata. Egli resta un esponente della gerarchia, seppure più legato di altri alla stagione conciliare e al papato di Paolo VI. Sembra molto “di sinistra” solo perché la quasi totalità dei cardinali, dei vescovi e dei preti si è, negli ultimi trent’anni, fortemente spostata “a destra”.
A confermare questa mia lettura è arrivato l'articolo che segue, dei primi anni 80, da “la Repubblica”. Ne è autore Domenico Del Rio, l’ottimo vaticanista e studioso di storia del Cristianesimo che in quegli anni scriveva sul quotidiano diretto da Scalfari. Del Rio dà conto di una iniziativa pastorale del cardinale in quanto arcivescovo di Milano: costui, ricorrendo all’espediente letterario di un dialogo epistolare con un suo santo predecessore, lamentava gli eccessi di “laicità” della metropoli lombarda e indicava come modello positivo la città “sacra” del tempo della Controriforma, i cui tempi erano scanditi dal rito e dalla preghiera cristiana. Insomma dall’articolo viene fuori l’immagine di un vescovo aperto ma conservatore. Come del resto deve essere il dignitario di una Chiesa che considera la Tradizione (non a caso con la maiuscola) un deposito di verità e moralità... (S.L.L.)
San Carlo Borromeo |
Caro San Carlo, beato te prima di tutto che sei in cielo, che "vivi nella gloria", e poi perché, ai tuoi tempi, eri quasi riuscito a fare di Milano una "città sacra", mentre io, che sono sulla terra, ho a che fare con una "città laica e complessa", con gente che sembra vivere in concorrenza con Dio, con la pretesa di saper fare tutto da sé, senza l' aiuto del Creatore. Chi scrive così a San Carlo Borromeo, antico arcivescovo della diocesi di Milano, è il cardinale Carlo Maria Martini. Non proprio in questa maniera, naturalmente, ma nei termini rispettosi e spirituali con cui un arcivescovo deve rivolgersi a un santo del paradiso.
La Lettera a San Carlo è un espediente letterario che il cardinale Martini ha escogitato per fare qualche riflessione non proprio ottimistica su "questo momento di Chiesa" in cui egli si trova a dirigere la diocesi che fu di San Carlo. La lettera si trasforma poi in un dialogo immaginario tra l'attuale arcivescovo e il suo santo predecessore. Lo scopo è quello di far vedere la differenza tra i tempi milanesi di San Carlo, tempi di robusti peccatori, ma anche di robusta fede, e quelli di oggi: tempi di "grigiore" e di abulia spirituale.
Martini, pur constatando lo scarso o almeno scarsamente visibile fervore dei battezzati milanesi, usa parole di delicatezza, proprie di un pastore paziente, ma nella lettera e nel dialogo immaginario fa emergere un San Carlo che fu duro, a suo tempo, con la sua città. Ora, si comprende, bisogna comportarsi in maniera diversa, ma, in sostanza, i milanesi devono essere scossi con le stesse raccomandazioni di allora. "Tu", dice Martini, "hai tentato davvero di fare di Milano una città sacra: il suo tempo doveva essere scandito dal suono delle campane, invitante alla preghiera, e la stessa struttura urbanistica prendeva corpo attorno alle chiese e alle croci. Durante i mesi drammatici della peste le campane invitavano alla preghiera a intervalli regolari e le messe celebrate su altari all'aperto, così da essere visti da coloro che erano rinchiusi nelle case, trasformavano l'intera città in un' unica grande chiesa".
Anche noi, prosegue il cardinale, abbiamo avuto il Congresso Eucaristico, abbiamo fatto la processione del Venerdì Santo per le strade, abbiamo scoperto "la reale possibilità di una preghiera corale dentro la vita convulsa della nostra città", ma succede che "la messa domenicale è trascurata da molti, è passivamente subita da non pochi che vi partecipano, non estende la sua influenza sulle altre ore del giorno domenicale", le nostre comunità vivono nel "grigiore". Insomma, sarebbe azzardato dire che qui, a Milano, si viva "una santità di popolo", come era riuscito in qualche modo a fare San Carlo Borromeo.
Io, interviene San Carlo, dovevo "ridestare una pietà assopita", tu invece devi "rifondare la pietà, cioè ricostruire i fondamenti della fede e della vita morale". E il santo ricorda un Memoriale che egli inviò ai milanesi dopo la peste. Martini sa che oggi memoriali di questo tipo non si fanno più. Esorta perciò a riscoprire la preghiera e a farsi guidare dalla parola di Dio, non rinuncia però a fare qualche biasimo concreto. "Occorre dare regolarità alla vita", dice, "non si può conciliare un ritmo sano di preghiera con la televisione sempre accesa, con la troppa golosità e intemperanza".
“La Repubblica” 19 luglio 1984
Nessun commento:
Posta un commento