19.9.12

Giuseppe Garibaldi, un "generale rivoluzionario" (di Eros Barone)

Il compagno ed amico Eros Barone mi comunica con una mail il suo disgusto per un vecchio articolo antigaribaldino di Alberto Banti che mi aveva fortemente infastidito (anche perché pubblicato sul “manifesto”) e che ho offerto di recente alla riflessione dei visitatori di questo blog. Condivido la sua denuncia del significato “reazionario” di talune revisioni della storia risorgimentale e volentieri diffondo un suo profilo di Garibaldi, centrato sul momento culminante dell’epopea risorgimentale, l’impresa dei Mille. A dimostrare quanto – contrariamente a quanto dice Banfi – il Nizzardo potrebbe (dovrebbe) essere maestro e compagno aggiungo a quanto scrive Barone due elementi: la partecipazione di Garibaldi alla difesa della Francia dall'invasione contro i sabotaggi dei “versagliesi”, prossimi persecutori della Comune, e un passaggio della lettera con cui Garibaldi rifiutò la sostanziosa pensione concessa dal governo. Eccola: “le centomila lire mi peserebbero sulle a spalle come la camicia di Nesso. Accettando avrei perduto il sonno, avrei sentito ai polsi il freddo delle manette, le mani calde di sangue; ed ogni volta che mi fossero giunte notizie di depredazioni governative e di pubbliche miserie mi sarei coperto il volto dalla vergogna… Questo governo, la cui missione é d'impoverire il paese per corromperlo, si cerchi complici altrove”. (S.L.L.)

Garibaldi a Calatafimi nelle figurine omaggio della Liebig (1910)
Il Risorgimento (1815-1861) è stato, così come il ‘triennio rivoluzionario’ giacobino (1796-1799) che ne ha posto le premesse, un periodo della storia d’Italia ricco di splendide personalità. Una di esse è quella di Giuseppe Garibaldi, un grande ligure (la famiglia Garibaldi era originaria di Chiavari), la cui nascita (1807) seguì di un anno quella di un altro grande ligure, Giuseppe Mazzini: due giganti della storia (non solo italiana).
Quando, l’11 maggio 1860, i Mille sbarcarono a Marsala e da lì mossero verso l’interno della Sicilia nord-occidentale, la rivolta popolare divampata in aprile riprese vigore. Garibaldi, con l’intuizione del grande generale di estrazione (e di vocazione) popolare, comprese subito che le sue possibilità di vittoria dipendevano strettamente da due condizioni fondamentali: prendere l’iniziativa nei confronti delle truppe borboniche al fine di rilanciare l’insurrezione e ribaltare la psicologia della sconfitta in certezza di vittoria; legarsi alle masse contadine e alla borghesia liberale siciliana appoggiandone le rivendicazioni e l’azione.
Occorre, d’altra parte, precisare che la formula “Dittatura del Generale Garibaldi sotto il Regno di Vittorio Emanuele” significava per i Mille “Italia unita”, per la nobiltà e la borghesia “Sicilia autonoma senza i Borboni e senza il dazio, nell’ambito del Regno d’Italia” e per le masse contadine “libertà dall’oppressione borbonica e siciliana, ripristino degli usi civici, occupazione delle terre”. Gli sviluppi successivi, come dimostrerà l’insurrezione contadina di Bronte, scoppiata nel mese di agosto e repressa nel sangue dai garibaldini di Nino Bixio, daranno un tragico risalto a queste differenze di significato.
Ciò nondimeno, queste due direttrici di azione fanno di Garibaldi il più grande stratega popolare che sia mai apparso nella storia italiana. I limiti che possono essere addebitati a Garibaldi sul piano politico non diminuiscono la sua grandezza di “generale rivoluzionario”, qualifica che, fin da subito e pur da lontano, gli attribuì con acume un osservatore del Risorgimento italiano del livello di Friedrich Engels.
Come è noto, la vittoria di Calatafimi (15 maggio 1860) fu conseguita, a prezzo di gravi perdite (centinaia di morti e di feriti), da un migliaio di coraggiosi volontari male armati contro quasi tremila soldati borbonici organizzati e bene armati. Non decisivo sul piano militare, l’impatto di quella vittoria si rivelò, tuttavia, importante e decisivo su quello psicologico. Quella battaglia aveva, infatti, dimostrato ai siciliani e ai borbonici che l’esercito napoletano poteva essere battuto e che i garibaldini erano invincibili. Da allora l’insurrezione divampò nuovamente in tutta l’isola e la borghesia settentrionale, che i Mille rappresentavano, conquistò l’egemonia nella lotta dei sici-liani contro i Borboni. Il merito di Garibaldi fu, perciò, quello di aver compreso che occorreva inserire la campagna dei Mille nella ‘guerra’ che i contadini e i liberali siciliani combattevano contro il nemico comune. 
Per avere un’idea del prestigio militare e, più in generale, del carisma che Garibaldi conseguì a livello mondiale, basti ricordare che all’inizio della Guerra di Secessione (1861-1865) il presidente Lincoln offrì a Garibaldi il comando dell’esercito nordista. In quel momento il presidente americano era in cerca di abili comandanti per un eser-cito che, quantunque superiore di mezzi, era stato più volte sconfitto, cosicché, dietro suggerimento dell’ambasciatore americano a Torino, decise di rivolgersi a Garibaldi che, ferito ad una gamba dopo l’episodio dell’Aspromonte, era stato fatto prigioniero e trasferito nel Forte del Varignano. Sennonché, ben deciso a mantenere immacolata la propria immagine di ‘Libertador’, il Generale rispose all’appello di Lincoln ponen-do una sola condizione: «Voglio - disse - che il presidente degli Stati Uniti annunci ufficialmente che questa guerra si prefigge l’emancipazione degli schiavi». Ma nella fase iniziale della Guerra di Secessione, benché vi fosse un forte e combattivo movimento abolizionista, il governo di Washington non era ancora orientato verso l’abolizione della schiavitù (che sarà proclamata da Lincoln nel 1863 e sancita, come XIII emendamento della Costituzione americana, nel 1865). Per questa ragione la pretesa di Garibaldi fu ritenuta inaccettabile dal Congresso. Di conseguenza, le trattative furono interrotte, l’esercito nordista non ebbe un comandante italiano e Garibaldi, liberato dal Varignano, se ne tornò nella sua Caprera in attesa di altri eventi.

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