Recensione e memoria di un grande, forse grandissimo. Commovente. (S.L.L.)
Ludico e funebre
Laborintus di Edoardo Sanguineti dovevamo studiarlo in biblioteca o in fotocopie, all'università: ovviamente introvabile la princeps dell'editore veronese Magenta, e fuori dal catalogo Feltrinelli quel Segnalibro. Poesie 1951-1982 che a distanza di quasi trent'anni lo aveva riproposto diacronicamente in chiave incipitaria. Adesso si ristampa opportunamente (dopo l'indispensabile edizione commentata, alcuni anni addietro, da Erminio Risso per Manni), entro quella remota raccolta originaria, Segnalibro, appunto, da decenni fuoriuscita dai cataloghi, che solo ora invade le librerie, negli ultimi anni scarsamente ospitali - o ospitali per un tempo assai fuggevole - delle opere del nostro (spesso uscite per piccoli ma pregevoli editori come Il melangolo di Genova), insieme ad altre due uscite sanguinetiane semipostume, ossia licenziate a pochi mesi di distanza dalla morte dell'autore, e dunque evidentemente col beneficio del suo «si stampi».
Si tratta del volume di saggi sparsi e talvolta inediti Cultura e realtà, uscito per Feltrinelli e approntato grazie alla curatela dell'ancora una volta prezioso testimone Risso, e le poesie ultime, dagli anni Novanta agli Zero (con la felice eccezione del preliminare, giovanilissimo travestimento donchisciottesco, già proposto da «Repubblica» vivo l'autore, in una occasione non remota). Varie ed eventuali, questo il titolo scelto da Sanguineti (così sappiamo dalla nota in calce al testo di Niva Lorenzini, e né ci meraviglia, abituati ai titoli all'apparenza «provvisori» o paratestuali, da Glosse a Fuori Catalogo, dell'autore), di quel momento poetico iniziale/iniziatico (per lo sforzo esegetico che richiedeva al lettore, mischiandosi in esso le lingue le forme le fonti) reca più d'una traccia, anche diretta ed esplicita (come ne Il suono del teatro, nelle due versioni «primo getto» e «variante», dove ritornano le «paludi», i «labirinti» e le «complessioni strutturali» di quell'esordio choc, ma anche, e, in modo ancor meno scontato, le «paludi di putredini» della serie mantovana su Mantegna) sebbene sia per forza di ventura un'opera incontestabilmente terminale.
Terminale perché in più d'un tratto sente di morte («viene la morte, allora:/devi trovarti a portata di mano», come nell'imitazione da Breytenbach), morte come leitmotiv del resto già ben sviscerato altrove, con piglio ostentatamente e coerentemente giullaresco (lo ricordava qualche anno fa un saggio di Andrea Cortellessa intitolato Morire per Sanguineti, titolo ambivalente che, mentre riecheggiava uno slogan editoriale degli anni Sessanta - in ogni città d'Italia c'è un giovane disposto a morire per Sanguineti -, consentiva di ripercorrere dagli esordi a Novissimum Testamentum l'attitudine ludicamente funebre della poesia sanguinetiana), e perché come in un ultimo passaggio della vita (poetica) dinanzi agli occhi, vi si ripresentano, alla maniera delle maschere dell'amatissimo teatro, tutti i personaggi già noti ai suoi lettori, dalla «moglie» o meglio «mia moglie», alla «figlia», al «figlio», quasi tutti e quasi sempre senza nome, a parte il nuovo nato Luca, il nipotino destinatario delle filastrocche che chiudono la raccolta (con recupero della modalità già cara a Sanguineti del «saltimbanco», qui raddoppiato in «cantimbanco»).
Oltre a qualche non ben identificabile apparizione, come quella delle solite «passanti» sanguinetiane, qui ad esempio la ragazza Deborah (entro un contesto ospedaliero, forse un'infermiera). E tornano, insieme ai personaggi, i modi e le forme della poesia sanguinetiana così come l'abbiamo conosciuta in oltre cinquant'anni di attività: dall'occasione o dalla commissione, come amava dire lui, alla contrainte formale (con assoluta prevalenza del sonetto, variato dal «sonnetuzzo» al «sonetto combinatorio» e quasi sempre ulteriormente complicato dalla presenza dell'acrostico o della coda), all'invenzione verbale che mescola il cultismo (dal «s'inselva» al «prósopon») al neologismo arditissimo («ratzingherofilando», «ultrultrultrultrultrosi»), alla sintassi «sbalordita» delle prime uscite in prosa alla ridondanza pronominale, vera marca autoriale dalla poesia autonoma alle ormai inquantificabili traduzioni (di cui in questo libro si ripropongono campioni dall'atteso Lucrezio, ma anche dai meno scontati Neruda e Saramago). E come per il libro di saggi il nucleo più consistente si compone di scritti d'arte, anche in questo caso è agli artisti che la poesia è maggiormente diretta, fino a farsi vera e propria ecfrasis nei due nuclei centrali dedicati alla mostra mantovana e nella sezione per Dürer. Seconda solo a quella per la musica, la passione per l'arte.
E, tra le Varie ed eventuali, il threnos per Berio è il momento che più tocca e commuove: Sanguineti vi si chiede se l'amico abbia potuto ritrovare, nelle stanze in cui adesso abita, la sua musica: «(di musica tua, voglio dire): (di te,/ che sei stato la musica, per me, per tutti, per anni e anni, qui»). Superfluo replicare la domanda, e rivolgerla a lui, sulla sua poesia: con sollievo lo pensiamo almeno «inesistere» in eccesso" (dal sonetto Duplex), finalmente, negli scaffali delle librerie. Se non ci sono più giovani disposti a morirne, che possano continuare a leggerlo.
Si tratta del volume di saggi sparsi e talvolta inediti Cultura e realtà, uscito per Feltrinelli e approntato grazie alla curatela dell'ancora una volta prezioso testimone Risso, e le poesie ultime, dagli anni Novanta agli Zero (con la felice eccezione del preliminare, giovanilissimo travestimento donchisciottesco, già proposto da «Repubblica» vivo l'autore, in una occasione non remota). Varie ed eventuali, questo il titolo scelto da Sanguineti (così sappiamo dalla nota in calce al testo di Niva Lorenzini, e né ci meraviglia, abituati ai titoli all'apparenza «provvisori» o paratestuali, da Glosse a Fuori Catalogo, dell'autore), di quel momento poetico iniziale/iniziatico (per lo sforzo esegetico che richiedeva al lettore, mischiandosi in esso le lingue le forme le fonti) reca più d'una traccia, anche diretta ed esplicita (come ne Il suono del teatro, nelle due versioni «primo getto» e «variante», dove ritornano le «paludi», i «labirinti» e le «complessioni strutturali» di quell'esordio choc, ma anche, e, in modo ancor meno scontato, le «paludi di putredini» della serie mantovana su Mantegna) sebbene sia per forza di ventura un'opera incontestabilmente terminale.
Terminale perché in più d'un tratto sente di morte («viene la morte, allora:/devi trovarti a portata di mano», come nell'imitazione da Breytenbach), morte come leitmotiv del resto già ben sviscerato altrove, con piglio ostentatamente e coerentemente giullaresco (lo ricordava qualche anno fa un saggio di Andrea Cortellessa intitolato Morire per Sanguineti, titolo ambivalente che, mentre riecheggiava uno slogan editoriale degli anni Sessanta - in ogni città d'Italia c'è un giovane disposto a morire per Sanguineti -, consentiva di ripercorrere dagli esordi a Novissimum Testamentum l'attitudine ludicamente funebre della poesia sanguinetiana), e perché come in un ultimo passaggio della vita (poetica) dinanzi agli occhi, vi si ripresentano, alla maniera delle maschere dell'amatissimo teatro, tutti i personaggi già noti ai suoi lettori, dalla «moglie» o meglio «mia moglie», alla «figlia», al «figlio», quasi tutti e quasi sempre senza nome, a parte il nuovo nato Luca, il nipotino destinatario delle filastrocche che chiudono la raccolta (con recupero della modalità già cara a Sanguineti del «saltimbanco», qui raddoppiato in «cantimbanco»).
Oltre a qualche non ben identificabile apparizione, come quella delle solite «passanti» sanguinetiane, qui ad esempio la ragazza Deborah (entro un contesto ospedaliero, forse un'infermiera). E tornano, insieme ai personaggi, i modi e le forme della poesia sanguinetiana così come l'abbiamo conosciuta in oltre cinquant'anni di attività: dall'occasione o dalla commissione, come amava dire lui, alla contrainte formale (con assoluta prevalenza del sonetto, variato dal «sonnetuzzo» al «sonetto combinatorio» e quasi sempre ulteriormente complicato dalla presenza dell'acrostico o della coda), all'invenzione verbale che mescola il cultismo (dal «s'inselva» al «prósopon») al neologismo arditissimo («ratzingherofilando», «ultrultrultrultrultrosi»), alla sintassi «sbalordita» delle prime uscite in prosa alla ridondanza pronominale, vera marca autoriale dalla poesia autonoma alle ormai inquantificabili traduzioni (di cui in questo libro si ripropongono campioni dall'atteso Lucrezio, ma anche dai meno scontati Neruda e Saramago). E come per il libro di saggi il nucleo più consistente si compone di scritti d'arte, anche in questo caso è agli artisti che la poesia è maggiormente diretta, fino a farsi vera e propria ecfrasis nei due nuclei centrali dedicati alla mostra mantovana e nella sezione per Dürer. Seconda solo a quella per la musica, la passione per l'arte.
E, tra le Varie ed eventuali, il threnos per Berio è il momento che più tocca e commuove: Sanguineti vi si chiede se l'amico abbia potuto ritrovare, nelle stanze in cui adesso abita, la sua musica: «(di musica tua, voglio dire): (di te,/ che sei stato la musica, per me, per tutti, per anni e anni, qui»). Superfluo replicare la domanda, e rivolgerla a lui, sulla sua poesia: con sollievo lo pensiamo almeno «inesistere» in eccesso" (dal sonetto Duplex), finalmente, negli scaffali delle librerie. Se non ci sono più giovani disposti a morirne, che possano continuare a leggerlo.
“il manifesto” 19-2-2011
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