"Non dobbiamo aver paura di chiamare le cose e le epoche col loro nome", ha detto Sainte-Beuve, "e il nome col quale il diciottesimo secolo può esser designato più appropriatamente, per il gusto, lo stile universalmente regnante nelle arti figurative, nelle forme e nelle abitudini della vita, perfino nella poesia, non è forse questo nome civettuolo e decorativo che sembra fatto espressamente per la bella marchesa e per rimare con amour?".
Ma l' immagine che di Madame de Pompadour prevalse nel secolo scorso fu ben diversa: quella diffusa dalla libellistica giacobina, dal diario del suo nemico marchese d'Argenson - che è un'opera sistematica di diffamazione - e dai versi popolari che incolpavano di ogni malessere pubblico non già il re, ma la sua favorita.
Chi fu, in realtà, la Pompadour? Il libro dello storico americano David Mynders Smythe (L' amante della Francia. Vita di Madame de Pompadour, Longanesi, pagg. 383, lire 25.000) ha il pregio di considerare il personaggio non solo nella sua interezza, ma in rapporto ai criteri e alla moralità del tempo in cui visse; così che tutta una serie di aneddoti - assai noti - acquistano una luce nuova. Poiché fino alla nostra epoca (e forse anche oggi) una donna poteva ottenere potere solo per riflesso del potere dell'uomo che la proteggeva, la Pompadour, che il potere lo voleva, puntò fin dall'adolescenza direttamente al re di Francia.
Ma proprio l'arditezza del progetto mette in evidenza la sua qualità "politica": le tecniche, insomma, che costituiscono il manuale della perfetta arrivista. Abituata dalla madre, madame de Poisson ("la macellara", la definì Gadda, perché era figlia di un macellaio all' ingrosso) e dal padre (approvvigionatore dell' esercito per conto dei finanzieri Pris) a non dar peso al senso morale: una caratteristica, peraltro, dei liberi pensatori, mademoiselle de Poisson non trovò mai nulla di male nel fatto che l'intera sua famiglia collaborasse al progetto.
Luigi XV, il Bien-aimè, era giovane, bellissimo, stanco del matrimonio "di Stato" contratto a quindici anni; e anche pigro, facile alla noia e, diciamolo pure, dipendente dalle donne (ben quattro sorelle, figlie del marchese di Nesle, si erano succedute come sue amanti soltanto perché lo avevano voluto). Un'amante del re era affare di Stato, problema di alta politica: alla Pompadour cadde propizio il favore del duca di Richelieu, preoccupato dell'ascendente che il partito della Chiesa poteva esercitare sul re.
Madame D'Etiolles (era questo il suo nome da maritata) faceva al caso suo: amica dei philosophes, viveva circondata da una atmosfera di raffinata intelligenza nella sua ricca dimora di campagna che ospitava Voltaire, Diderot, D'Alembert, Marmontel. Ma la signora era insoddisfatta (del resto il suo matrimonio aveva fatto parte di una strategia di lancio). Madame D'Etiolles era narcisista, di natura fredda e calcolatrice; possedeva, più che l'arte, la scienza di piacere: con la simpatia, l'affettuosità, lo spirito; non conobbe invece mai la passione sessuale. Le sue armi furono la grande bellezza, l'intelligenza, la cultura.
Era straordinariamente abile nell'adattarsi alla persona con cui si trovava; sapeva esser umile se era il caso, tanto da non riuscir sgradita alla pia e appartata regina. Sapeva inoltre che non bisognava mai parlar male di nessuno e che non era elegante mostrare le proprie sofferenze. Allietava i banchetti con i suoi canti e i suoi balli. In più, era molto generosa. Così equipaggiata, a ventiquattro anni diventò l'amante del re. Ben presto fu presentata con cerimonia alla corte di Versailles come matresse-en-titre, dotata del marchesato di Pompadour, il che significava una rendita annua di dodicimila livres.
La vita dei due amanti si svolgeva fra le cacce e nei petits appartements, lussuosi ma semplici, che Luigi aveva voluto per sfuggire a quell' alveare fastoso e scomodo che era la Corte di Versailles. Qui il sovrano cenava con gli amici, versava il caffè con le proprie mani, giocava à la Comète; durante il regno ventennale della Pompadour ci furono centinaia di serate come queste, che anonimi libellisti trasformarono in "orge". Prima di entrare nel letto della marchesa, Luigi si recava alla cerimonia del coucher pubblico: sotto gli occhi dei cortigiani si coricava nel suo letto ufficiale (al mattino avveniva il contrario).
Il compito principale della Pompadour era quello di stimolare continuamente la languida fantasia del sovrano: parlavano per ore di piante, di gatti, di palazzi che stavano costruendo; lei lo informava dei fatti del mondo borghese parigino, formicolante sotto le formalità e gli intrighi della Corte. Luigi non aveva segreti per lei, né politici, né diplomatici, né militari. Ma la Pompadour, sapendo che il re desiderava essere padrone assoluto, non ostentava la propria influenza.
Sempre allo scopo di distrarlo costruì un teatro la cui attività durò vari anni, con una compagnia stabile di cui ella stessa faceva parte, sottoponendosi a interminabili prove. Ma questo splendore costava lagrime e sangue; occorreva procurarsi continuamente degli alleati per proteggersi dai nemici di ogni tipo, primo fra tutti il delfino - devotissimo ai gesuiti - e a sua moglie. Luigi detestava le sedute di governo; la sua qualità politica si può scorgere assai meglio in quell'incredibile complesso di documenti che è il Secret, la corrispondenza diplomatica che egli intrattenne per anni con tutta l' Europa all'insaputa dei suoi ministri. Era quasi una cospirazione. Luigi cospirava perché, timido qual era, odiava la resistenza aperta; ma la cosa più singolare, e forse tragica per la Francia, è che proprio questa sua politica clandestina, obliqua e sfuggente, era superiore per genialità e ampiezza di vedute a quella ufficiale.
La Pompadour apparteneva a questo versante segreto, del suo augusto amante. Quanto alle sue idee illuministiche, con lui le misurava; il re aveva infatti capito che esse rappresentavano un pericolo non solo per la Chiesa, ma anche per la monarchia. Quando, verso i trent'anni la marchesa si ammalò e le furono proibiti i rapporti sessuali, capì che non poteva imporre la castità al re; Luigi aveva bisogno di sesso non per passione, ma per irrequietezza, per ennui, e anche per il fascino del mistero che ogni donna gli sembrava emanare. Furono gli anni degli amori in incognito con fanciulle del popolo convocate al Parc aux Cerfs. Ma la marchesa non temeva quelle avventure, aveva saputo sostituire all' amore-passione una impagabile amicizia, proprio come fanno certe mogli intelligenti e materne.
Ben altri erano i suoi nemici, sempre in attesa della sua detronizzazione che non venne. Cionondimeno la Pompadour si adoperò per consolidare la propria posizione. Intanto quella economica. Da buona borghese, aveva sempre tenuto dei conti ordinati delle sue spese; in varie riprese si assicurò la proprietà di diciassette tenute, più le case a scopo d' investimento (la sua mania di cambiare, di costruire era un modo di dare sfogo al suo istinto creativo, al suo senso della proprietà, al bisogno di distrarre il re).
In tal modo forniva lavoro ai grandi artisti francesi (gli architetti Lassurance e Gabriel, i pittori Boucher e Van Loo, l'incisore Verberckt e lo scultore Pigalle) e a centinaia di operai. Ce ne vollero ottocento solo per il palazzo di Bellevue, che divenne uno scrigno di tesori: scrittoi incrostati di tartaruga o in lacca o in bois satinè, bronzi, vasi, cristalli, porcellane, statue, collezioni di ametiste coralli e conchiglie. Carrozze, seggiole, divani, specchi e caminetti, perfino uno stuzzicadenti, furono detti à la Pompadour. Quello stile morbido e femmineo esisteva in realtà prima di lei, ma fu la marchesa a riassumerlo in sé, ne fu la personificazione, anche se ironia vuole che, personalmente, preferisse lo stile semplice e classico che si chiamerà Luigi XVI.
Da grande cliente dei mercanti francesi passò agli investimenti industriali: nella fabbrica di porcellane di Sèvres (dove impiegò cinquecento operai e sessanta pittori sotto la direzione di Jacques Boileau); in una vetreria; nei vascelli corsari che, con i dolci nomi di La Rose, La Diane, Louis le Bien-Aimè, insidiarono il commercio inglese. Oltre alla sua posizione economica la Pompadour provvide anche a consolidare quella politica: chiese ed ottenne dal sovrano il licenziamento dei suoi nemici, anche se è ingiusto attribuirle quello del ministro Machault (detestato dal clero quale promotore della tassa detta la vingtième e dai tribunali quale capo della magistratura) o quello di d'Argenson (voluto dalla Spagna); semplicemente, non fece nulla per impedirli. Mentre è vero che ebbe gran parte nell'alleanza con Maria Teresa d' Austria allo scopo di far guerra a Federico di Prussia che odiava e da cui era disprezzata. La Pompadour sceglieva personalmente i generali in base ai sentimenti che nutrivano verso di lei anziché per le loro qualità professionali; si oppose alla nomina a comandante supremo del principe de Conti, intimo del re. Si ostinò a protrarre una guerra che costò alla Francia duecentomila morti, un impero in India e in America settentrionale, e quando il suo protetto, il principe di Soubise, perdette la battaglia di Rossbach nel 1757, la comprensibile furia popolare le riversò addosso lettere anonime, versi d'irrisione, insulti e minacce di morte. Per niente intimorita, la marchesa impone un'altra sua creatura, il conte di Clermont, che porta l'esercito a un'altra sconfitta a Krefeld, e infine, non ancora vinta, fa nominare ministro degli esteri il brillante conte di Choiseul che divenne amico dei philosophes, del Parlamento e dei giansenisti: e fu la soppressione dell' ordine dei gesuiti, nel 1764.
Ma la Pompadour non godè di questa vittoria: era morta l' anno precedente. Già negli ultimi tempi della sua vita era ormai stanca, malata, disinteressata alla politica; non le interessavano più le beghe tra il Parlamento e il partito della Chiesa, che la regina difendeva in un mare di sospiri. Tutte le passioni ormai spente, la marchesa si avvolgeva il capo con uno scialle simile a quelli che portava la regina. Sapendo quanto il re detestasse le malattie, recitò la parte dell'amica che lo rasserena fino al giorno della morte: una morte dignitosa e composta, come si conveniva a chi, allieva dei philosophes, aveva eretto la ragione a guida delle proprie azioni. Aveva quarantadue anni.
Luigi, seguendo dal balcone il piccolo corteo uscito frettolosamente dal palazzo, commentò: "La marchesa ha scelto un brutto giorno per il suo viaggio". Cinismo? No, contegno. Se lo avesse sentito, la Pompadour avrebbe compreso subito che quello era un modo per nascondere il proprio dolore; il re aveva perso con lei l'unica confidente della sua vita (e che in più, aveva lasciato alla Corona tutti i suoi beni). Così si chiude questo romanzo borghese di un' ascesa sociale, la storia di una donna che voleva che tutto le appartenesse, e per questo pagò il prezzo di non appartenere a se stessa.
“la Repubblica”, 24 febbraio 1985
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