Tutto cominciò con gli occhiali
Disse una volta Conrad, affrontando il problema della sua scelta linguistica, di scrivere in inglese, di pensare in francese e di sognare in polacco. Kipling, quando era già uno scrittore affermato, disse di aver imparato a parlare, a pensare e a sognare in indostano. Anche se, rispetto a Conrad, egli ebbe dunque una lingua in meno, può essere considerato in qualche modo un transfuga linguistico: uno scrittore che scrisse in una lingua diversa da quella in cui aveva imparato a pensare.
Certo, il caso fu ben diverso: il conte Korzeniowski abbandonò le lingue del pensiero e del sogno per eleggere una diversa realtà linguistica e nazionale; Kipling non ebbe bisogno di un cambiamento così radicale, perché inglese lo era già. Suo padre, John Kipling, era un britannico che dirigeva il museo di Lahore; la madre si chiamava Alice MacDonald, era per metà scozzese e per metà irlandese. Rudyard sembra quasi un "riassunto" etnico del Regno Unito, la somma di una nazionalità che con il nome "Impero Britannico" nell' Ottocento dominava mezzo mondo. Ed egli nacque proprio in una delle zone più remote dell' impero, nella città di Bombay.
Era il 1865, e l'effigie dell'imperatrice Vittoria stava arrivando in India a sovrastare le immagini di Shiva e del Buddha. Ma nonostante il ceto familiare, Rudyard trascorse la prima infanzia in modo diverso dai figli dei funzionari dell'amministrazione britannica. Lo lasciarono crescere libero e tranquillo, a diretto contatto con il mondo diseredato dei sudditi, con i monelli e con la plebe dell'India. Quando più tardi fu mandato in Inghilterra per essere educato, il piccolo Rudyard aveva già assimilato i gusti, i modi e la cultura della gente fra la quale era cresciuto: principalmente, aveva già imparato "a parlare, a pensare e a sognare in indostano".
Quando, a diciassette anni, Rudyard Kipling torna in India, è ormai un inglese che scrive in inglese. La famiglia non può pagargli gli studi universitari, l'amministrazione britannica lo scarta all'esame di impiegato governativo per un difetto alla vista, e il giovane si impiega come cronista in un giornale di Lahore, la “Civil and Military Gazette”. Si può dire che la carriera di scrittore di Kipling cominciò per necessità e perché portava gli occhiali. Ma, nonostante la miopia, Kipling aveva una vista acuta. Più che guardare, egli sapeva vedere. E con questa virtù dello sguardo, che non appartiene al nervo ottico ma all'intelligenza, cominciò a scrutare il mondo che lo circondava.
Era un mondo coloniale fatto di ricevimenti al circolo degli ufficiali, di taverne, di caserme, di funzionari, di mercanti: il mondo dell'Anglo-Indian People, che negli anni Ottanta aveva costruito una società tutta sua, lontana dall'Inghilterra e lontana dall'India nella quale viveva. Kipling doveva ritrarre questo mondo in quadri che non superassero lo spazio di due colonne, che era lo spazio a sua disposizione sul giornale. Per necessità imparò a coltivare uno strumento arduo e perfetto: il racconto breve. Usciti nel 1888 con il titolo Plain tales from the hills (Nel paese alto), questi racconti gli procurarono un'immediata notorietà. E la sua carriera di giornalista cambiò. Assunto dal maggiore giornale indiano, il “Pioneer”, fu inviato a percorrere tutto il continente, dall' Himalaya al Rajasthan al Gange. Poi partì per la Cina, e di lì passò nel Giappone; e dal Giappone si imbarcò per l' America. Nelle sue cronache sul “Pioneer”, poi uscite in volume nel 1889 con il titolo From sea to sea (Da mare a mare) descrisse le raffinatezze dell'oriente ma anche la frenetica vita di San Francisco e di Philadelphia. Era un uomo pronto a vedere il reale, come volevano la sua inclinazione e il suo mestiere; e le metropoli americane esacerbarono il suo realismo. Lasciò pagine stupende sull'inferno dei mattatoi di Chicago, dove uomini inebetiti, fra un baccano meccanico e rivoli di sangue, macellavano migliaia di maiali. Ma scoprì anche la seduzione della modernità, cantò le navi e le automobili, il telegrafo e le locomotive. Molto prima di Marinetti scoprì il fascino perverso della macchina. Intanto i suoi racconti di giornale, ripubblicati in opuscoli dalla Weeler's Railway Library di Allahabad, erano venduti nelle stazioni ferroviarie indiane e raggiungevano un pubblico molto vasto. Quando ritornò a Londra, Kipling era già uno scrittore affermato.
Nei suoi racconti c' era l'esotico senza esotismo, il senso dell'avventura, il fascino delle imprese pionieristiche. Si attirò l'attenzione di Tennyson, la simpatia dei circoli conservatori e la rivalità di Stevenson. Era il momento dell' orgoglio patriottico e dell' espansione militare. Kipling assecondò questo momento: le sue Canzoni di caserma (Barrack Room Ballads), pubblicate nel 1892, lo resero noto fino negli angoli più remoti dell' Impero. Oggi queste ballate popolaresche, vigorose e militari, non parlano naturalmente a nessuno: il ritmo dei loro versi si è spento come il rumore degli scarponi dei lancieri del Bengala; semmai possiamo ricordarle perché servirono da modello alle ballate di Brecht, con un'ideologia ovviamente ribaltata. Poi Kipling tentò la via del romanzo. Uno strano romanzo, che forse può ancora affascinare e che è un romanzo fallito: La luce che si spense (The Light that Failed), una sosta quasi decadente e pessimista nella sua opera vigorosa e realista. Il nuovo soggiorno americano, alla fine del secolo, gli restituì prontamente la vigoria. Sono di quel periodo i suoi libri più belli, Il libro della giungla del 1894 e Il secondo libro della giungla del 1895. Poi venne Kim, nel 1901, e con esso la vera fama, siglata dalla gloria del premio Nobel assegnatogli nel 1907 per "l'indirizzo idealistico" della sua opera. Kipling morì il 17 gennaio del 1936; ma come scrittore si spense molto prima. Credo che i due ultimi libri, usciti dopo un lungo silenzio (Debits and Credits, "Debiti e crediti", del 1926, e Limits and Renewals "Ostacoli e rinnovamenti" del 1932) non aggiungano molto alla sua opera. Probabilmente la storia, gli avvenimenti e le trasformazioni culturali furono più rapide di lui.
Il Novecento, come sappiamo, è un secolo che brucia le tappe, e Kipling non capì il nuovo secolo, restò impigliato nel suo Ottocento. Oggi c'è una certa tendenza a sottrarlo all'etichetta di "bardo dell' Impero", perché egli ne avrebbe colto i segnali della decadenza. Credo che sia una tendenza che non gli rende giustizia. Dell'amministrazione britannica colse eventualmente le contraddizioni, perché non era un uomo ottuso; ma fu un colonialista convinto e questo non va a demerito né a onore della sua scrittura. Se lo leggiamo ancora, è perché la sua scrittura è limpida, il senso del reale è preciso e la struttura del racconto esemplare. Credo che ci affascini principalmente il senso dell'avventura che lo pervase, la sua curiosità verso il mondo, la capacità di trasformare in favola la natura, di antropomorfizzare gli animali, di dare anima agli esseri della foresta. Scrisse negli anni di Melville, di Conrad, di James, ma non ne condivise le inquietudini e le angosce. Non era un grande scrittore. Fu un ottimo scrittore. Ma questo non è poco.
“la Repubblica”,16 gennaio 1986
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