Benito Mussolini e Gabriele D'Annunzio |
Se qualcuno mi chiedesse di indicare concisamente per quali ragioni si discute ancora - come testimoniano tra l'altro il convegno che si è aperto ieri al Vittoriale ed altri incontri previsti (a Pescara, ad esempio) per questo mese di ottobre - su D' Annunzio politico, oltre che poeta, sarei tentato di rispondere che sono almeno tre; e che basta ricordare qualche verso della celebre Canzone d'Oltremare dettata durante la guerra di Libia per vederle plasticamente rappresentate.
I versi a cui mi riferisco dicono: "...odo nel grido della procellaria / l' aquila marzia, e fitto il mare nostro / nel vento della landa solitaria / con tutte le tue prue navigo a ostro / sognando la colonna di Duilio / che rostrata sarà d' un novo rostro...". Se si supera l' impaccio dell' enfasi retorica, è possibile cogliere il senso della profezia nella quale si congiungono il passato (la gloria di Roma repubblicana e imperiale) e il futuro (l'imminente riscossa dell' Italia) secondo una formula che avrà una grande influenza nell' agonia dello Stato liberale. Ma accanto agli accenti profetici ed evocativi, capaci di "innalzare il noto, grigio e banale alla dignità dell'ignoto" (come affermerà Nino Valeri), c'è una seconda ragione, più propriamente ideologica: ed è quel mito delle corporazioni che troverà a Fiume, tramite il sindacalismo rivoluzionario e la personalità di Alceste De Ambris, una prima enunciazione costituzionale nella carta del Carnaro e che sarà ripreso poi, in chiave nettamente reazionaria, da Alfredo Rocco dopo la conquista fascista del potere.
Evocando le corporazioni e dando all' impresa di Fiume una connotazione ideologica legata a quel mito, D'Annunzio mostrava infatti di cogliere un elemento importante della crisi del primo dopoguerra: la decadenza della società liberale e individualista, la contraddizione classe-nazione esplosa durante il conflitto, l'esigenza di una nuova ricomposizione sociale. Non a caso per definire la stabilizzazione avvenuta negli anni Venti nell'Occidente industrializzato, lo storico americano Charles Mayer ha parlato negli anni scorsi di "società corporatista". Non è lo stesso che dire "corporativa", ma si tratta di una formula accettata da molti studiosi, che vuol sottolineare proprio il peso aggregante delle categorie professionali nelle società emerse dalla crisi postbellica.
L'ultima ragione, come accade spesso, è la più importante di tutte. D'Annunzio non soltanto comprese, ma praticò direttamente la politica come spettacolo, e dovremmo aggiungere come spettacolo rivolto alle masse. Si rese conto attraverso un'intuizione che non può dirsi soltanto poetica e letteraria, che il tempo dei politici che parlano soprattutto tra loro, che usano il linguaggio della prosa e del ragionamento, che si sottraggono alla popolarità delle folle (basta pensare, per l'Italia, a politici come Giovanni Giolitti) era stato messo in crisi dalla guerra e dall'irrompere sulla scena di grandi masse poco o nulla alfabetizzate.
E' curioso, e per certi versi paradossale, che uno dei poeti più intimamente aristocratici e decadenti che l'Italia abbia avuto nel XX secolo, rivelasse prima con l' intervento, poi con l' impresa di Fiume, di saper costruire una messinscena di riti e di linguaggi particolarmente adatti a suscitare attesa ed entusiasmo nella nuova generazione. Del resto, prima ancora di quegli anni, scegliendo i banchi di sinistra nell' aula parlamentare, D' Annunzio aveva dimostrato di capire che, per parlare alle masse, la tradizione cui bisognava riferirsi era quella del socialismo europeo, cioè dei primi partiti politici che alle masse si erano rivolti per acquistare forza.
Alla politica come spettacolo il poeta era dunque arrivato per gradi, prima imparando dai socialisti, poi attingendo ai riti e agli inni di guerra: elementi necessari per avvicinare se stesso come leader politico di nuovo tipo alle masse. "A pensarci bene", ha osservato Alberto Asor Rosa, "D'Annunzio non deve convincere nessuno dei suoi ascoltatori con i suoi discorsi. Egli deve semplicemente esaltarli e spingerli all'azione: la totale illusorietà delle sue forme fa parte della scena... egli abbandona, per esempio, ogni tentativo di discorso "razionale": non spiega, non dimostra, afferma. L'orazione serve a mettere l'ascoltatore di fronte a una galleria di immagini e sentimenti che tocchino acutamente le sue capacità di reazione e di rivalsa".
E Nino Valeri, che nel suo saggio su D' Annunzio e il fascismo (editore Le Monnier) ha ricostruito con grande finezza il rapporto contrastato tra il poeta e il regime, afferma a sua volta che l' oratoria dannunziana "consisteva, in sostanza, nella capacità di imbonire l'interlocutore (o gli interlocutori o le folle) mediante il richiamo a un qualcosa di superiore e di ineffabile (superiore in quanto ineffabile e ineffabile in quanto superiore), destinata a unire magicamente l'oratore e gli ascoltatori in una categoria di eletti, veleggianti al disopra della vasta arena, dove vivono come bruti gli uomini intenti alla fatica quotidiana e ai pasti".
Da questo punto di vista è difficile non scorgere un elemento di continuità, pur tra le differenze innegabili di stile, tra l' approccio dannunziano alla politica e quello di Mussolini. Anche se si volesse sostenere la tesi, a mio avviso discutibile, d'una scarsa influenza diretta del poeta sul fondatore dei fasci, non c'è dubbio che la spettacolarizzazione della politica attuata da D'Annunzio nelle "radiose giornate di maggio" del 1915 e nella marcia su Fiume verrà seguita da Mussolini nel primo dopoguerra.
Diverso, invece, e per molti aspetti più complesso, è il discorso sui rapporti tra D'Annunzio e il fascismo. Qui per molto tempo ha fatto velo l'immagine che il regime mussoliniano ha voluto costruire, a fini propagandistici, sul ruolo non solo di precursore, ma anche di vate benedicente, del poeta. Nel secondo dopoguerra, e anche di recente, a quella prima immagine se ne sono aggiunte altre, anch'esse fuorvianti, che tenderebbero a staccare quasi completamente il D' Annunzio politico dalla vicenda fascista, se non addirittura a farne un avversario "oggettivo" del duce. In realtà, a giudicare dai documenti disponibili fino a questo momento - dall'importante carteggio tra Mussolini e D' Annunzio pubblicato nel 1971 da De Felice e Mariano, come dalla recentissima biografia di Paolo Alatri - sembra di poter giungere a una valutazione complessiva più sfumata ed articolata. Occorre infatti distinguere l'apporto innegabile che D'Annunzio diede al crollo dello Stato liberale e del giolittismo (con la battaglia nazionalistica durante la guerra e con l'impresa di Fiume che vide per la prima volta nell'Italia unita la ribellione aperta di ufficiali e soldati dell'esercito) dai suoi rapporti per così dire "soggettivi" con Mussolini e con il gruppo dirigente fascista. Questi ultimi furono difficili e oscillanti nel ventennio che va dalla fine della guerra alla morte del poeta. Mussolini effettuò un'opera massiccia di corruzione del silenzio e dell'appoggio di D'Annunzio versandogli somme assai rilevanti per l'acquisto dei suoi manoscritti, donandogli il Vittoriale, facendolo principe di Montenevoso e garantendogli un'esistenza lussuosa e sicura. D'altra parte D'Annunzio, sia che avesse in cuor suo rinunciato alle ambizioni politiche, sia che non si sentisse di sostenere una battaglia incerta o addirittura disperata, non si limitò ad accettare semplicemente la marcia su Roma e la dittatura, ma si spinse fino a cercar di ritrovare il suo ruolo di vate patriottico quando Mussolini attaccò l'Etiopia. "Tu", scriveva a Mussolini poco prima di morire, il 13 dicembre 1937, "hai soggiogato tutte le incertezze del fato e vinto tutte le esitazioni umane. Non hai nulla da temere, non hai più nulla da temere. Non vi fu mai una vittoria così piena. Lasciami orgoglioso di averla preveduta oltre ogni limite e di avertela annunciata. Per questa sera rimango in silenzio, e ti abbraccio come non seppi mai in alcuna altra ora".
"la Repubblica", 10 ottobre 1985
Nessun commento:
Posta un commento