In questa nota di Lucio Villari per “la Repubblica”, pubblicata a corredo della presentazione di un libro di Robert Ritchie su capitan Kid, può scorgersi una lettura assai diversa da quella, un po’ romantica, della pirateria come ribellione e libertà, di cui pure si trova traccia in questo blog.
Filibustieri e bucanieri vengono collocati da Villari nella geopolitica e considerati un elemento importante nello scontro tra le potenze coloniali, uno strumento della guerra contro la Spagna da parte di Inghilterra, Francia e Olanda. Questa guerra illegale svolta da feroci bande criminali diventa peraltro cuore dell’originaria accumulazione capitalistica.
Una lettura istruttiva, che – con tutte le cautele del caso - ci aiuta anche a riflettere sul peso e sul ruolo delle mafie nel nostro tempo. (S.L.L.)
Forse non è buona educazione ricordare ogni tanto a noi europei che il sistema liberal-capitalistico del quale, giustamente, andiamo fieri, ha tra i suoi non molti progenitori i filibustieri. Ed è certamente un piccolo colpo basso ricordare che il vessillo inalberato dalle navi dei pirati — prima di quello più noto e, per così dire, più caro ancor oggi alla nostra infantile fantasia (il teschio e le tibie incrociate) — fu la bandiera rossa. Ce ne dispiace, ma le cose stanno così.
La storia della civiltà (ma, forse, sarebbe sufficiente dire della trasformazione) europea occidentale è più ineducata e insolente di quanto molti storiografi e storicisti (europei e occidentali) abbiano fatto credere. Non resta dunque che prendere atto di alcuni avvenimenti non proprio edificanti —anzi, sanguinosi e violenti — che fanno parte integrante della nostra storia economica e politica, ed hanno una caratteristica particolare: quella di essere divenuti, grazie a narratori quali De Foe, Cooper, Poe, Stevenson, Salgari e altri ancora, leggende e favole divertenti.
Dunque, parliamo di pirati (o corsari, o bucanieri, o filibustieri che dir si voglia) e di pirateria, cioè di una organizzazione internazionale di rapinatori che per quasi due secoli percorse in lungo e in largo le rotte atlantiche, con navi per lo più rubate, e creò una sorta di sistema abbastanza funzionale di «regolamentazione» e di selezione della ricchezza che, sotto forma di metalli preziosi, veniva trasferita dall'America all' Europa.
La pirateria è quindi una delle conseguenze dirette della scoperta dell'America; e non è affatto una scortesia dire che gli abbordaggi corsari e lo svuotamento dei galeoni spagnoli e portoghesi carichi di ori e argenti sottratti agli indios, o da questi tragicamente scavati nelle orrende miniere americane, rendono i pirati più simpatici delle loro vittime.
Il primo atto di pirateria che si ricordi pare sia stato compiuto da navi francesi nel 1523; e segna l'inizio di quel processo di redistribuzione forzosa e drammatica della ricchezza, nonché di accu-mulazione originaria della medesima, che va sotto il nome di capitalismo moderno. Ma non è il Cinquecento il periodo aureo della pirateria, bensì il fantastico e inquieto secolo successivo, in sintonia, appunto, con la progressiva internazionalizzazione dei mercati, con il consolidamento del colonialismo americano e asiatico, con l'imborghesimento dell'Europa occidentale e con il commercio degli schiavi (al quale ultimo si dedicavano anche insospettati e tranquilli, professionisti).
È nel Seicento che la redditizia attività della filibusta è esplicitamente legalizzata dagli Stati di cui gran parte dei pirati sono sudditi. Si può parlare, anzi, di una «pirateria autorizzata» che è qualcosa di diverso dall'autorizzazione alla rappresaglia concessa dai governi alle navi perché si rifacessero, a spese di città costiere o di altre navi, dei torti subiti mentre erano in navigazione. La «pirateria autorizzata» era un'altra cosa nel senso che il sostegno che i corsari avevano dal governi lo restituivano sotto forma di percentuali e tangenti.
Nel Seicento la Spagna e il Portogallo, grazie anche ai corsari, vengono progressivamente impoveriti e emarginati, mentre l'Olanda, l'Inghilterra e la Francia assurgono al ruolo di grandi potenze anche perché (ecco il punto) elaborano e sperimentano un modello di politica economica internazionale (che molto tempo dopo sarà definito «imperialismo») che consisterà, anzitutto, nel controllo del commercio e degli scambi di materie prime e di manufatti; e, successivamente, dei relativi prezzi.
Dal punto di vista metodologico si trattava dello stesso modello dell'organizzazione corsara; o, per meglio dire, la pirateria rappresentava la formula elementare e «abbreviata» (per via del fatto che le vittime, cioè le navi, erano svaligiate senza tanti complimenti e i marinai sgozzati sul posto) di quello che Olanda, Inghilterra e Francia facevano come potenze coloniali. A tal proposito non è inutile sapere che proprio l'Olanda, la libera Olanda di Rembrandt e di Spinoza e degli esuli libertini e repubblicani, sperimentò, nei suoi possedimenti asiatici, gli strumenti del colonialismo più feroce. Come racconterà poi un governatore (pentito) di Giava, la storia dell amministrazione coloniale olandese «mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassinii e infamie»; e si trattava di un paese che nei libri di storia risulta come la nazione capitalistica modello del secolo XVII.
Ma la storia della pirateria riguarda più l'Atlantico che il Pacifico, ed è inseparabile dalle vicende del Nuovo Mondo e di quella parte di esso che accende ancora la nostra fantasia: i Caraibi. Era qui (in particolare negli splendidi rifugi delle Antille) il grimaldello che doveva far saltare, secondo il programma delle tre grandi potenze, il poderoso impero spagnolo delle Americhe. Ma, essendoci in mezzo un oceano, non era facile neanche agli inglesi armare flotte poderose per mandarle allo sbaraglio. Sarebbero stati necessari capitali «di rischio» che era meglio investire in attività economiche più redditizie quali, ad esempio, quelle svolte dalla Compagnia delle Indie. Ecco, allora, che l'intraprendente «iniziativa privata» dei pirati, le abilità guerresche dei bucanieri, lo spirito di avventura e i colpi di mano, potevano sostituire efficacemente uno scontro frontale e una guerra tra Stati.
E’ questo un punto molto delicato e importante della storia dei rapporti e dei conflitti internazionali del Seicento. La pirateria caraibica diviene infatti 1'ago politico e militare di una guerra illegale, non dichiarata, ma dalla quale la Spagna uscirà progressivamente sconfitta. Insomma, già alla fine del secolo la pirateria poteva vantarsi di avere contribuito al rovesciamento di un equilibrio internazionale che aveva nell'America coloniale il suo asse; di avere collaborato non solo alla formazione dei nuovi imperi coloniali, ma di proteggerne e, come dimostra anche la ricerca di Ritchie, di finanziarne il funzionamento.
La pirateria fu dunque il cervello e il braccio violento di quella accumulazione capitalistica di cui il sistema coloniale (che voleva anche dire commerciale e manifatturiero) fu la spinta propulsiva. Anzi, per dirla con Marx, «fu quel "dio straniero" che si mise sull'altare accanto ai vecchi idoli dell'Europa, e che un bel giorno con una spinta improvvisali fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che il plusvalore era il fine unico e ultimo dell'umanità».
"la Repubblica", 18 marzo 1988
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