I frammenti che seguono sono ripresi da “l’Unità” del 1° dicembre 1986. Dovrebbe averli scelti Ugo Casiraghi, autore dell’articolo che il box affianca. (S.L.L.)
Cary Grant in "Arsenico e vecchi merletti" (Frank Capra) |
Grant commemora Grant
«Se dovessi commemorarmi direi che Cary Grant è stato un buon attore. Non un Lionel Barrymore o un Charles Laughton, ma un buon attore sì. Ha fatto singhiozzare, battere dei teneri cuoricini femminili, ha divertito: insomma ha fatto il suo lavoro con serietà, con trasporto e anche con umiltà. Merita solo poche righe nella storia del cinema. Con un accenno alla «durata», semmai».
Grant il rubacuori
«La fama di rubacuori mi è sempre piaciuta. Soddisfaceva, a seconda dei momenti, il mio atavico senso dell'umorismo, oppure, più semplicemente, il mio orgoglio maschile. Non ricordo se qualche attrice franò ai miei piedi. E’ passato tanto tempo. E poi, lo sanno tutti, sono piuttosto distratto».
Grant e la droga
«Lo so, la mia ex moglie Dyane Cannon mi accusò in tribunale di prendere allucinogeni. Tutte bugie. A Hollywood parecchi miei colleghi, tra i quali Broderick Crawford e Bob Mitchum, mi chiamano "l'infrequentabile", perché dopo il secondo bicchierino di liquore sono già partito. Figuriamoci che cosa mi succederebbe se mi dessi alla droga».
Il giorno più brutto della vita
«Mai mi sono sentito così in crisi come quella mattina d'estate del 1942. Avevo preso da poco la cittadinanza americana e mi trovavo in fila con molti altri valorosi californiani al tavolo degli arruolamenti. Mi sentivo fresco, bandanzoso, eroico. Il sergente seduto al tavolo spense tanto entusiasmo con poche parole, più schiaccianti di una doccia gelata: "Troppo vecchio, grazie, torni pure a casa". Ma, ribattei timidamente, non mi avete neppure passato la visita medica. "Non serve, vedo da me che è troppo vecchio". Forse, dissi, un posticino nelle truppe ausiliarie... "Avanti un altro", tagliò corto il sergente».
Il maestro più importante
«E’ Bob Pender, acrobata ambulante. Mi insegnò quasi tutto. Ancora oggi il mio modo di muovere le mani, di arrotondare gli occhi, di guardare stupito di sottecchi, come sbirciassi da sotto un paio di invisibili occhiali, quelle trovatine che i miei spettatori amano, escono dal repertorio di Pender. Mi diceva: "Non importa come canti e come reciti, ma devi saper inciampare e cadere bene. La gente sorride per una barzelletta, ma ride davvero solo quando l'attore va a gambe all'aria. Se poi fischia, fai un salto mortale. Niente s'impone al pubblico come il salto mortale". "E se mi rompessi l'osso del collo?", chiedevo preoccupato. "Piacerà moltissimo — rispondeva implacabile il maestro — te lo farei rifare tutte le sere, e due volte la domenica"».
Perché si ritirò
«Non avevo più voglia di recitare. Ma anche il successo, dopo quarant'anni di lavoro, può venire a noia, no? E poi non ho più l'entusiasmo di una volta, mi rendo conto che adesso potrei lavorare solo meccanicamente. Quindi preferisco non esistere più come attore, ma fare un bel funerale a Cary Grant e tornare ad essere soltanto Archibald Alexander Leach».
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