10.1.13

I cento anni di Samuel Beckett (Paola Colaiacomo)

Da un articolo sul “manifesto” per il centenario beckettiano riprendo qui un ampio stralcio. Ha una scrittura (e una lettura) “difficile”, ma contiene più di uno spunto critico notevole, per esempio nella individuazione della continuità-rottura coi maestri protonovecenteschi o nel considerare la ricerca di Beckett indirizzata più che a una negazione un “nuovo inizio”. (S.L.L.)  
Quei felici giorni dell'irriverenza
Oggi, 13 aprile, Samuel Beckett avrebbe compiuto cent'anni. Si sa che lo scrittore dublinese volle sempre difendere questa data di nascita contro quella riportata sull'atto ufficiale, che lo ascriveva al mese successivo. Ma nel 1906 il 13 aprile era caduto il venerdì di Pasqua, e la coincidenza era troppo preziosa per essere lasciata cadere dal suo umorismo vagamente noir. Lo stesso che lo portò a scegliere per una delle sue prime opere l'enigmatico titolo Whoroscope, parola il cui suono si confonde con horoscope, se non fosse che la W aggiunge all'aspirazione iniziale una densità in più, e un leggero sentore di «puttana» - whore - così che quel deliberatamente «difficile» poemetto finisce col chiamarsi, pressappoco, «puttanoroscopo ». Come dire che gli oroscopi vanno bene per le puttane, o che c'è sempre qualcosa di puttanesco in un oroscopo. Salvo poi far comparire nel whoroscope un personaggio della levatura di Cartesio, con la sua frittatina di uova marce. Anche le ultime parole di Murphy, protagonista dell'omonimo romanzo - il suo primo - sembrano tolte di peso da un oroscopo: «Anni fortunati. 1936 e 1990. Anni di prosperità e di successo, pur se non privi di disgrazie e difficoltà ». In effetti Beckett aveva composto Murphy proprio nel 1936 (ma il libro uscì due anni dopo), mentre il 1990 sarebbe stato per lui il primo anno di non-vita, dato che morì il 22 dicembre del 1989, a Parigi, sua città elettiva.

Il senso delle distanze relative
Chiudere l'incommensurabilità del tempo in un pronostico è la promessa dell'oroscopo: una specie di sberleffo, o di forma commercialmente degradata del tempo, che si capisce potesse incuriosire Beckett, il quale del motivo dell'agone con il tempo fece una propria costante espressiva, oltre che tematica. «Parlo al tempo presente, è così facile parlare al presente quando si parla del passato», dichiara Molloy all'inizio di quella che sarebbe diventata la Trilogia (Molloy, Malone muore, L'Innominabile). Ma la scelta del presente per raccontare la propria «enorme storia», non basterebbe da sola a produrre il desiderato effetto di offuscamento della sequenza spazio-tempo, se a quella scelta non si aggiungesse il disordinamento della triangolazione pronominale: io, tu, egli; o: io, tu, mondo. Verbi e pronomi fanno sorgere nella lingua il senso delle distanze relative, donandole profondità e prospettiva, come in un dipinto rinascimentale.
Blanchot si chiedeva chi fosse a dire «io» nei libri di Samuel Beckett, ma in realtà non è solo l'«io» a essere disturbato in essi. «L'uso della seconda persona distingue la voce. Quello della terza il velenoso altro. Se potesse parlare a quello e di quello di cui la voce parla, allora ci sarebbe una prima persona. Ma non può. Non deve.» Così Company. Per un bambino arrivare a dire «io» è un traguardo evolutivo importante, qui invece il movimento è regressivo: bloccata la prima persona, ogni altro posizionamento non è che un gioco di specchi vuoti. Non può esservi Compagnia ma solo solitudine, voce sempre più affievolita. Respiro. Che si chiamino Murphy, Molloy, Malone, Mahood, Verme, o Belacqua, questi personaggi sono tutti resi innominabili dalla mancanza di scambio comunicativo. Se il loro «io» potesse dar luogo a un «me», allora sì che conquisterebbero, con lo spazio, anche il tempo, e tutto diventerebbe narrabile secondo l'ordine classico: passato, presente, futuro. Ma nessuno dei loro «io» ne è capace, o forse nessuno lo vuole. «A volte - dice l'Innommable - confondo me stesso con la mia ombra, e a volte no. E a volte non confondo me stesso con il mio orcio. E a volte sì.»
Il deposizionamento della lingua dai marker di tempo e spazio è la necessaria premessa per l'abolizione del «punto di vista», ordinatore per eccellenza della narrazione modernista: da James, a Joyce, a Svevo, a Faulkner, a Woolf. Senza parlare, ovviamente, di Proust: sul quale, ancora prima di cominciare a scrivere «in proprio », Beckett aveva pubblicato un lungo saggio, mettendo a frutto la formazione universitaria di filologo romanzo. Lì egli aveva chiuso conti con la maniera ereditata di narrare, dimostrando la fallacia dell'«equazione proustiana» fondata sulla memoria. «Reale» era in quell'equazione l'improvvisa, traumatizzante emersione della sofferenza dell'essere dal tedio dell'esistere. Questo «reale» vedeva il soggetto perennemente in perdita e costretto a un inutile inseguimento, né poteva essere diversamente, dato che nell'attimo dell'epifania, così come nella lunga durata del flusso interiore, c'è sempre un resto di presente non perfettamente assimilato al racconto. L'insorgenza della memoria non sospende la vita; il presente residuale non smette di agire sul soggetto, ma elude la scrittura, anticipandola, come nel sofisma di Achille e la tartaruga.
Messa di fronte a questa difficoltà, la sperimentazione novecentesca aveva risposto assottigliando il più possibile, mediante le diverse strategie narrative, le scorie inelaborate, tuttavia il sogno di una scrittura assolutamente complanare alla coscienza e alla memoria era rimasto un'utopia. La relazione che legava il soggetto al tempo perdurava triadica: tra il ricordante e il ricordato si interponeva, tertium inafferrabile, la figura del presente che, agostinianamente, ci sfugge via, proprio nel momento in cui sembra avvolgerci.
Nel saggio-recensione Samuel Beckett ou la présence sur la scène, scritto sotto l'effetto della prima parigina di En attendant Godot, nel 1953, Alain Robbe-Grillet ha sostenuto che Beckett esce dalla difficoltà di produrre il presente del personaggio - o il personaggio come presente - attraverso il teatro. Il personaggio sarebbe stato spostato sulla scena proprio perché sulla scena tutto è «presente» e tutto è «detto», per definizione: parole e gesti, voce e corpo. Bisogna però considerare che lo scrittore non operò mai una scelta di campo definitiva, e anzi negli ultimi anni tornò ripetutamente alla prosa narrativa, pervenendo ai suoi risultati forse più alti in assoluto, tra i quali il trittico di poemetti-monologhi in prosa raccolti in Nohow On (Company, Ill Seen Ill Said, Worstward Ho), dove i problemi affrontati, con eroico approfondimento, sono ancora e ancora quelli dell'inizio.
Credo si stringa più dappresso l'essenza della lingua beckettiana - dove, è vero, non si capisce mai bene chi è che parla, tranne che sulla scena, né esattamente di cosa si stia parlando, ma qui la scena non soccorre - evitando di procedere a una netta separazione tra drammi e racconti, o romanzi, e guardando invece a tutta l'opera di questo autore secondo una prospettiva unitaria. Si vedrà allora come la conquista del presente sia perseguita da Beckett, sulla scena come sulla pagina, attraverso un costante esercizio di autolimitazione: attraverso la rinuncia a un nitido posizionamento spazio-temporale della sua parola; attraverso l'accettazione di situazioni tematiche pressoché invariate.
Questo schema minimalista lo perseguì con rigore ascetico, e io credo in fondo anche con gioia, fino alla fine dei suoi giorni. Lessness, non fu per lui semplicemente un titolo, ma l'impresa della vita. Persino la scelta del francese gli fu dettata dal bisogno, come disse, di scrivere «senza stile»… La creatura sola, sul punto della fine; a volte, come nella «novella » Le calmant, addirittura già finita: un'unica situazione limite conduce da Aspettando Godot a Molloy a Finale di partita a Mal visto mal detto. Semmai si potrà dire che, con gli anni, vi è una radicalizzazione della ricerca, poiché della propria imminente o avvenuta fine i personaggi sono man mano più consapevoli. L'avvicinamento della morte promette unità al loro «io» deprivato: «Io non dirò più Io», dichiara Molloy. «L'occhio incollato alla finestra non vede che nere tende», dice la morente di Mal visto mal detto. E quale maggiore felicità che un tale riposo su se stesso dell'io non più fabulante? Certo, era ancora solo una promessa, ma intanto il modo non era più quello della memoria, come in Proust, ma quello dell'attesa, come in Dante.

Cosa c'è dopo quello zero
Un'ultima raccomandazione, per finire. Per finire ancora una volta. Si ricaverebbe oggi solo un'utilità marginale da una lettura che riconducesse il personaggio beckettiano ai canoni dell'assurdo: a una rappresentazione metafisica, e al fondo banalmente realistica, di una supposta «assurdità» della condizione umana, in un mondo che di umano avrebbe per definizione sempre meno. Non credo che questo facile e consolatorio pessimismo sia mai appartenuto allo scrittore irlandese. Semmai è la «letteratura » a compiere attraverso di lui uno scatto evolutivo, e forse ancora non del tutto assimilato, quando si taglia i ponti dietro le spalle per ripartire da zero. Cosa c'è dopo quello zero? È questa la domanda urgente. Cosa importa se per arrivare a porla si devono torturare i personaggi: rinchiuderli in una stanza, legarli a una sedia, configgerli in un orcio, ricoprirli di detriti, privarli della vista, di uno o più arti, o del corpo intero; ridurli a una Bocca, a una Voce, o magari togliere loro anche quella? Farne dei Nonio, come in Not I, delle Cose che possono solo «cadere» e restare spiaccicate per terra, come in All That Fall? Mille volte il lettore è tentato di abbandonare a loro stessi questi clown impazziti, di fuggire dalla loro parola acefala, che si parla da sola, che sembra non temere nulla per sé, poiché di fatto espone lui, il lettore, all'impersonalità che la divora. Così che il miracolo è che si continui a leggere, esattamente come con la televisione si continua a guardare. E Beckett è scrittore troppo interessato e troppo esperto di quelle estensioni della parola umana che sono i linguaggi di cinema, radio, televisione - oltre che, ovviamente, teatro - per non riportare questo suo sapere dentro le lettere. Visto da vicino, qualunque personaggio, anche il più convenzionale, è effetto di montaggio: un pupazzo imbottito di stracci. Da solo non starebbe in piedi, né si vede perché dovrebbe. E allora tanto vale togliergli la stazione eretta. Farne l'ultimo centauro: mezzo uomo che ricorda senza parlare, e mezzo nastro magnetico che parla senza ricordare. L'ultimo nastro di Krapp. Ma che da tanta irriverenza nasca un nuovo sapere umanistico, questa è la sfida ancora tutta da giocare.

il manifesto, 13 aprile 2006

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