Nell'epoca della riproducibilità tecnica, la bellezza femminile ha avuto un volto, quello di Greta Garbo. Era stata cantata sempre ma ognuno, nelle fantasia d'amore o della forma, le aveva dato per millenni le fattezze dettate da un ricordo o da un bisogno. Di colpo, in questo secolo il cinema ha scoperto e costruito e diffuso un modello, che ha trascorso frontiere e tradizioni, fatto impazzire gli uomini e imposto a tutte noi, donne o ragazze fra le due guerre, il metro della nostra inadeguatezza.
Greta Garbo era la bellezza in assoluto. Tanto che la sua perfetta immagine fu crudele anche per lei: quando sarebbe cominciata a sfiorire, a trentasei anni, scomparve letteralmente dal mondo - alta figura in impermeabile, occhiali neri e cappello calato sul volto, inutilmente braccata dai fotografi. Non dovette esserle facile: le poche istantanee che la colsero a tradimento la rivelano assurdamente presto invecchiata, segnata. Salvo nelle sole pose concesse a Cecil Beaton, bellissime e intriganti, la risata d'una bella cinquantenne e la malinconia asessuata senza età d'un arlecchino.
Ma sono pose. Essa sapeva bene che il cinema non si limitava a riprenderla e moltiplicarla. Il codice di Hollywood, le regole del suo immaginario, gli scenari e la camera le rimodellavano il viso, come a Marlene Dietrich, come a Marilyn Monroe - tutte bellissime ragazze, tutte e tre prosperose, dallo schermo affinate fino alla trasmutazione, l'iperbole di sé. Come se in un corpo il cinema esplorasse un immaginario visivo fino all'estremo, fino alla soglia con l'irreale. Nessuno ha mai vissuto nella luce che gli operatori hanno scoperto per le divine, nessuno si è stagliato su quelle porte e paesaggi e ombre, nessuno ha investito l'altro come l'impatto del primo piano dove il volto, al contrario della vicinanza, si sfuma in rarefazione, nessuno si assenta con il fascino della dissolvenza o dello stacco. Quel teatro che fa specchio alla realtà e ad essa si rimanda come reale, nel cinema moltiplica i piani fuori dall'esperienza, i dati dello spazio e del tempo. L'attore non è più attore, è un altro essere, più vicino e più labile. Greta vide bene quanto la sua immagine fosse immutabile e lontana da sé, e quando non poté più rifarla vivere preferì nascondersi.
Sapeva che il cinema non esaltava soltanto quei suoi lineamenti straordinari, sempre più puri ed astratti, quel collo arrovesciato per un difetto osseo che si tramutava nel massimo del fascino. Li trascriveva. Offriva il mito della bellissima come donna autonoma, potente, sessualmente ambigua.
Autonoma perché alla perfezione non si comanda. Greta Garbo moriva per amore come Anna Karenina, o per amore e tisi come Margherita Gauthier, ma era lei a decidere anche solitudine o rovina. Come Marlene, non fece mai parte della coorte delle sedotte e abbandonate: è lei che piega verso di sé il volto di lui, regolarmente di spalle. Queste donne si abbandonano per colmo di iniziativa. Non c'è partner che con loro non sia lui il sedotto, l'inadeguato, quello che compie irreparabili errori e resta a piangere.
Autonome e potenti. Il cinema ha dato alla seduzione, su scala di massa, quell'apparenza di potere dovuto a una perfezione rara di natura, che fa del femminile il luogo di annegamento e perdizione di lui…
“il manifesto”, 16 aprile 1990
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