19.1.13

Il giacobino Ernesto Rossi (di Nicola Tranfaglia)

E' così rara e difficile da trovare, di questi tempi, la qualità di uomini come Ernesto Rossi (sul quale, a diciassette anni dalla morte, si aprono oggi a Milano, al Palazzo delle Stelline, un convegno e una mostra storica), che si rischia di concludere che ci volevano tempi di ferro e di fuoco come gli anni Trenta e Quaranta per far emergere quei personaggi, e che oggi, ahimè, i tempi portano alla ribalta altre personalità, a volte più grigie e prevedibili. Ma è un rischio da evitare, perché se il fascismo non fosse crollato, di Ernesto Rossi oggi non si parlerebbe affatto.
Tra gli oppositori della dittatura, Rossi, che era stato volontario e interventista nella Grande guerra e collaboratore, fino al 1922, del “Popolo d' Italia”, fu, senza alcun dubbio, uno dei più fermi e risoluti. L'esperienza della guerra, che egli aveva vissuto come altri giovanissimi (era del 1897) nello spirito degli ideali risorgimentali e del mazzinianesimo, lo aveva condotto ad una critica dura di tutti i partiti italiani e del sistema liberale in crisi; sicché a lui, come ad altri interventisti, l' iniziativa dei Fasci nella fase diciannovista era parsa una rottura positiva. "Se non avessi incontrato sulla mia strada al momento giusto Salvemini", scriverà molti anni dopo, "che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalla bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci di combattimento che - conviene ricordarlo - avevano allora un programma a sinistra del partito socialista...".
Ma proprio l'apertura spontanea alle tesi anticonformiste di Salvemini ed al suo impegno politico testimonia che Rossi aveva già in sé antidoti morali e politici per smascherare la strumentalizzazione del mito patriottico, e della politica sociale cara alle classi medie, fatta dal nascente fascismo. Così, quando Mussolini riceve l'incarico di formare il governo dopo la farsa rivoluzionaria della Marcia su Roma, il giovane Rossi, che si è ormai dedicato allo studio dell'economia politica, non ha dubbi sulla strada da prendere: quella di un'opposizione decisa ed intransigente ad un governo che si presenta subito come antiliberale e nazionalista. La fondazione dell'"Italia libera" nel giugno 1924, subito dopo l'assassinio di Matteotti, quindi l'esperienza della stampa clandestina ed in particolare del fiorentino “Non mollare”, redatto con Carlo e Nello Rosselli, Dino Vannucci e Lello Traquandi, con l'attiva partecipazione di Salvemini, costituiscono nella battaglia di Ernesto Rossi gli antefatti, i primi passi che precedono l' impegno totale ed assorbente della lotta clandestina nella seconda metà degli anni Venti, quando la dittatura mussoliniana si consolida e l' opposizione, costretta all' esilio o alla clandestinità, faticosamente si organizza. Rossi, legato come Riccardo Bauer all'ambiente liberale antifascista del Nord, è tra i primi ad aderire in Italia al movimento di "Giustizia e libertà" fondato a Parigi da Carlo Rosselli e da Emilio Lussu. In "Giustizia e libertà", al di là del programma ideologico - che è di blocco democratico contro il regime - egli vede un gruppo di uomini risoluti a combattere con ogni mezzo il fascismo, a suscitare in tutti gli oppositori l'entusiasmo necessario per costruire qualcosa di duraturo e di efficace.
"Carattere asciutto e anti-oratorio", è stato scritto di lui in uno dei primi ritratti, "ingegno chiaro e portato all' analisi, alieno dalla speculazione filosofica, dalle vaste sintesi e dal gusto dell' avventura intellettuale, il Rossi recava nella propaganda e nell'azione la forza originaria e saldissima della sua dignità di uomo offeso dalla tirannide ed una fede illuministica nell'efficacia della ragione". Una ragione - possiamo dire - messa a dura prova dalle divisioni e dagli errori dell'antifascismo, come dai lunghi anni del carcere e del confino.
Dopo avere scritto, sulle pagine della “Riforma sociale” di Luigi Einaudi, penetranti indagini della politica finanziaria fascista, e negli opuscoli clandestini di "Giustizia e libertà" beffarde analisi dell'odioso classismo fascista, Ernesto Rossi viene arrestato nel 1930 in seguito alla delazione di Carlo Del Re e condannato a vent'anni di reclusione dal tribunale speciale; non riacquisterà la libertà che tredici anni dopo, quando la dittatura cade.
Carcere e confino sono dunque i luoghi nei quali egli passa gran parte della sua maturità di uomo e di studioso. Di quel lungo periodo restano non soltanto le lettere raccolte da Manlio Magini in quel bellissimo libro che è “Elogio della galera”, così pieno di umorismo e di umanità, ma anche una serie di testimonianze e di ricordi che ritraggono Rossi come un uomo che si serve della propria sofferenza e anche del proprio scetticismo non per allontanarsi, ma per avvicinarsi di più agli altri uomini, fossero anche i più diversi da lui. Quel che colpisce nelle sue lettere alla madre Elide o alla moglie Ada (una presenza centrale nella sua vita, anche dopo gli anni del carcere) è la sua profonda tolleranza, la sua capacità di analizzare lucidamente ciò che accade, senza per questo evitare i conflitti o gli scontri con chi, al contrario, gli appare settario e intollerante.
Non c' è qui modo di parlare della lunga attività pubblicistica di Ernesto, o meglio della sua riflessione politica ed economica negli anni del carcere; ma c'è un suo ricordo sull' importanza che quel lavoro ebbe per lui, impedendogli di impazzire anno dopo anno. "La ricerca della verità", scrisse più tardi nella sua Critica del capitalismo, "mi liberava dallo spazio e dal tempo: non sentivo più l'irritante suono dei ferri battuti; nella cella non c' era più il puzzo del bugliolo e delle cimici; le inferriate e le mura del carcere svanivano nella lontananza del subcosciente".
Perché qualcuno non lo dimentichi, c' è da aggiungere che dovettero passare otto anni prima che la polizia politica fascista gli concedesse di sedere per qualche ora ad un tavolo con penna, inchiostro e calamaio. Giunto al confino di Ventotene nella primavera del 1939, Rossi si incontra tra gli altri con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, e da un'elaborazione comune nasce il primo documento federalista del dopoguerra, quel Manifesto di Ventotene che sarà alla base della lunga e non conclusa battaglia per l'unità politica dell' Europa. Spinelli nel primo volume delle straordinarie memorie che ora ha pubblicato presso il Mulino (Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse) ci dice, di Rossi e dell'incontro che ebbe con lui nel 1939, una cosa che ci restituisce un aspetto fondamentale della personalità di Ernesto: "Le conversazioni con Rossi mi scossero dal mio stato quasi sognante, facendomi sentire che non potevo più continuare a meditare su Mosè, Solone, Gesù, San Paolo, Marx, ma dovevo decidere qui ed ora, all'evidente vigilia del ritorno alla vita attiva, quali fossero i nostri ideali di civiltà e prepararmi ad essere loro fedele, poiché dopo la vittoria contro Hitler non sarebbe stato facile fare di essi i punti di riferimento fermi per costruire la società del dopoguerra".
C'è in Ernesto Rossi, in tutta la sua attività politica e pubblicistica, dal “Mondo” all'“Astrolabio, dai libri laterziani sul clericalismo, sui profitti industriali illeciti, sulle magagne dello Stato democristiano, sulla troppo scarsa libertà di stampa, fino agli ultimi scritti, una volontà di "dire" per "fare", di conoscere la realtà per modificarla, che fa di lui un giacobino in un mondo di farisei, ma soprattutto uno degli ultimi illuministi di questa tormentata Italia postfascista.

 “la Repubblica”, 18 maggio 1984

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