A fine ottobre si è
costituito a Roma il Comitato per il No in vista del referendum
costituzionale sulla legge in corso di approvazione che modifica una
cinquantina di articoli della Costituzione. Il Comitato è presieduto
da un consiglio direttivo del quale fanno parte una quarantina di
costituzionalisti, giuristi, uomini di cultura. Il referendum, in
base all’art. 138 della Costituzione, può essere chiesto da un
quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque
Consigli regionali qualora la legge sia approvata con la maggioranza
assoluta ma inferiore ai tre quinti dei componenti sia alla Camera
che al Senato. Si tratta quindi di un atto di controllo che assume
valore oppositivo al testo approvato dalla maggioranza e non richiede
alcun quorum di partecipazione per la sua validità (come il 50%+1
degli elettori previsto per il referendum abrogativo). Il referendum
è praticamente sicuro in quanto al Senato è escluso che possa
esservi la maggioranza dei due terzi. Naturalmente Renzi ha cercato
di metterci il cappello, dichiarando la sua intenzione di sottoporre
la legge al referendum, come se questa fosse una sua “graziosa”
concessione e non un diritto riconosciuto alle opposizioni e quindi
cercando di trasformare il voto popolare in un plebiscito a favore
del Governo.
Ma a che punto è l’iter
della cosiddetta “riforma” costituzionale? Dopo il primo voto
favorevole del Senato (8 agosto 2014) e della Camera (10 marzo 2015),
il Senato il 13 ottobre ha approvato con alcune scarne modifiche un
testo che, in quanto ritenuto intoccabile da Governo e maggioranza,
sarà sicuramente approvato da entrambe le Camere nei primi mesi del
nuovo anno. Quindi il referendum, dati i tempi necessari per
richiesta, controllo e indizione, si svolgerà nell’autunno del
2016.
Gli emendamenti approvati
dal Senato che hanno indotto la minoranza del Pd a dare il proprio
voto favorevole (pur con qualche lodevole eccezione) sono stati
indicati dal senatore Chiti in una lettera pubblicata da “la
Repubblica” il 21 ottobre. La modificazione più rilevante
riguarderebbe l’elezione del Senato, che spetterebbe ormai ai
cittadini con una successiva ratifica dei Consigli regionali. Dal
punto di vista formale l’emendamento che fa riferimento alle
“scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in
occasione del rinnovo” degli organi “dai quali sono stati eletti”
è stata inserito non nella sua sede naturale, il comma 2 del nuovo
art. 57 che continua a stabilire l’elezione dei senatori da parte
dei Consigli regionali, ma nel comma 5 che riguarda la durata in
carica dei senatori. A tal proposito Bersani ha parlato di
“bizantinismi costituzionali”. Ma si tratta in realtà di una
mortificazione del testo della Costituzione, che i nostri padri
costituenti vollero il più chiaro e accurato possibile, anche
facendo ricorso a competenze linguistiche e letterarie (come quelle
di Pietro Pancrazi e di Concetto Marchesi). Questo modo di procedere,
oltre a creare problemi di comprensione del testo, finisce per
degradare la Costituzione ad un regolamento di condominio, nel quale
quella che conta è la volontà dei condomini comunque espressa.
Nella sostanza la
modificazione in questione è profondamente ambigua: il termine
impiegato “scegliere” non è come “eleggere”, ma implica solo
che gli elettori saranno chiamati a dare un’indicazione non
necessariamente vincolante per i Consigli regionali. Le modalità di
elezione saranno stabilite da una futura legge bicamerale e dalle
normative elettorali di attuazione delle Regioni. E qui si annidano
problemi che rendono altamente improbabile l’elezione popolare dei
senatori. Infatti come conciliare la previsione del comma 5 con
quella che al comma 2 stabilisce che l’elezione dei
consiglieri-senatori avvenga “con metodo proporzionale” e ancora
di più con la previsione di cui al comma 6 che i seggi siano
attribuiti “in ragione dei voti espressi e della composizione di
ciascun Consiglio”? Evidentemente il Ddl quando parla di
proporzionalità fa riferimento alla consistenza dei gruppi
consiliari e aggiunge poi una condizione, quella dei “voti
espressi” già di per sé difficilmente conciliabile con quel
criterio, visto che tutte le leggi elettorali regionali attribuiscono
un premio di maggioranza consistente che altera notevolmente la
proporzionalità nella trasformazione dei voti in seggi. Si aggiunga
poi la difficoltà derivante dal fatto che in otto Regioni (tra le
quali l’Umbria) e nelle due Province autonome saranno eletti solo
due senatori (di cui uno sindaco e quindi non derivante dalle
“scelte” degli elettori del Consiglio regionale). Per dare
attuazione ad una improbabile elezione popolare si è parlato di
reintroduzione di listini regionali collegati ai
candidati-presidenti, con ciò riesumando un pessimo istituto che
consentiva l’elezione a consigliere di personalità collegate al
candidato vincente non soggette ad alcun voto popolare. Si è
ventilato allora il ricorso al voto di preferenza, ma in tale ipotesi
può accadere che il candidato che ha avuto un maggior numero di
preferenze popolari sia escluso a vantaggio di quello meno
“preferito”, ma appartenente ad una lista più forte, magari
perché collegata al candidato-presidente vincente, e quindi
legittimata ad esprimere il senatore in applicazione del “metodo
proporzionale”.
In questo grande
pasticcio una sola cosa è certa: il nuovo Senato, a meno di
ipotizzare un improponibile scioglimento simultaneo di tutti i
Consigli regionali, sarà costituito a tappe. Quindi, se la
legislatura giungesse al suo termine naturale, anche ipotizzando che
la legge bicamerale sulle modalità di elezione dei senatori sia
approvata entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge
costituzionale e le conseguenti normative elettorali regionali entro
i novanta giorni successivi, i consiglieri-senatori potrebbero essere
“scelti” dal corpo elettorale solo nelle cinque Regioni il cui
Consiglio scade entro la primavera del 2018 (Lombardia, Lazio,
Molise, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), mentre in tutte
le altre i consiglieri sarebbero eletti come senatori dai rispettivi
Consigli senza alcuna “scelta” da parte del corpo elettorale. In
termini numerici ciò significa che sui 74 senatori-consiglieri ben
51 sarebbero eletti dai Consigli in sede di prima applicazione della
legge. A questi sono da aggiungere i 21 sindaci la cui elezione
spetta ai soli Consigli regionali. Insomma nel primo Senato
costituito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale su
95 senatori elettivi 72 sarebbero eletti dai Consigli senza alcuna
indicazione da parte degli elettori. Rimane inoltre intatta la scelta
di fondo che i senatori elettivi siano consiglieri regionali o
sindaci e non i cittadini, come avviene in quasi tutti gli
ordinamenti che prevedono una seconda camera eletta indirettamente.
Il cumulo delle cariche sarebbe assolutamente negativo per il buon
esercizio delle funzioni e l’autorevolezza dei futuri senatori
sarebbe notevolmente ridotta rispetto a quella che all’interno del
sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Stato-Città-Autonomie
locali) possono giocare i presidenti delle Regioni e i sindaci delle
grandi città. Quanto alle funzioni della seconda Camera, nelle
modificazioni apportate dal Senato le novità sono esigue. Per quelle
legislative rimane la contraddizione tra funzioni bicamerali, che
comprendono le leggi costituzionali, e un Senato non eletto
direttamente dal popolo, ma formato da consiglieri regionali,
titolari di competenze legislative ridimensionate, e da sindaci, che
di competenze legislative non ne hanno alcuna. Anche la restituzione
al Senato del potere di eleggere due dei cinque giudici
costituzionali di nomina parlamentare non si giustifica affatto alla
luce della composizione debole e indiretta della seconda Camera e più
in generale solleva perplessità la possibile configurazione dei due
giudici come “avvocati delle Regioni”. Quanto alle proposte del
Senato sulle leggi di competenza della Camera, potranno essere
agevolmente messe nel nulla dalla maggioranza dei deputati,
saldamente nelle mani di un solo partito in base alla nuova legge
elettorale. In definitiva il principale risultato da attendersi è
che i numerosi procedimenti legislativi previsti dal Ddl, a seconda
delle diverse modalità di intervento del Senato, verranno a
costituire una enorme complicazione (altro che semplificazione!) e
potranno essere fonte di una improduttiva conflittualità. Quanto
alle novità per cui il Senato non “concorre alla valutazione”,
ma “valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche
amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione
europea sui territori”, si tratta di formule generiche che potranno
essere riempite o svuotate dalle future leggi approvate dalla
maggioranza della Camera che dovranno darvi attuazione.
Rimane poi del tutto
aperta la questione della elezione degli organi di garanzia. Infatti
la riduzione drastica del numero dei senatori, mentre viene mantenuto
l’attuale numero dei deputati (alla faccia del tanto decantato
risparmio!), riduce la valenza dei quorum stabiliti per l’elezione
dei titolari di organi di garanzia. Per il presidente della
Repubblica già la Camera aveva elevato il quorum ai tre quinti dei
componenti del Parlamento in seduta comune, ma dopo il settimo
scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
Diventa quindi possibile
“il rischio di un capo dello Stato «scelto» da chi vince le
elezioni” (come ha spiegato D’Alimonte, sostenitore della
riforma, su “Il Sole 24 Ore” del 29 settembre 2015). E evidente
che in un contesto di tipo maggioritario, nel quale una maggioranza
più che assoluta della Camera è fabbricata artificialmente
dall’attribuzione di un premio abnorme, le maggioranze qualificate
per poter effettivamente garantire devono essere calcolate sul numero
non dei votanti (che può essere ridotto da compiacenti non
partecipazioni al voto) ma dei componenti.
Infine le uniche novità
relative alle Regioni riguardano il cosiddetto “regionalismo
differenziato”. Fra le materie che possono essere attribuite alle
Regioni in condizioni di equilibrio tra entrate e spese con legge
approvata dalle Camere sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione
interessata, vengono inserite le “disposizioni generali e comuni
per le politiche sociali” e il “commercio con l’estero”. Il
rischio è che in questo modo si dia vita ad un puzzle indigeribile e
difficilmente accettabile da parte dei cittadini, che non sono certo
responsabili delle scelte finanziarie operate dalla Regione nella
quale risiedono. L’unica cosa certa è che viene operata una
ri-centralizzazione dei poteri che comprime il ruolo delle Regioni e
ne riduce l’autonomia finanziaria (già compromessa dalla legge
costituzionale n. 1 del 2012 sul cosiddetto “pareggio di
bilancio”).
In conclusione restano intatte le ragioni di fondo che giustificano una dura opposizione. Dalla combinazione tra legge elettorale “italica” e “riforma” costituzionale deriverebbe un cambiamento surrettizio della forma di governo da parlamentare a iperpresidenziale (non “presidenziale”, in quanto priva dei contrappesi che caratterizzano il sistema di governo degli Stati Uniti) o a “Premierato assoluto”, per richiamare l’espressione con la quale Leopoldo Elia bollò nel 2005 la riforma della seconda parte della Costituzione approvata dall’allora maggioranza di centrodestra e poi bocciata sonoramente nel referendum popolare del 25/26 giugno 2006. Lo stesso impegno occorre oggi spendere per respingere con il voto la controriforma ideata da Renzi e Berlusconi e portata avanti anche con il sostegno degli ascari di Verdini, che mette in discussione gli equilibri costituzionali e quindi la tenuta del sistema democratico.
In conclusione restano intatte le ragioni di fondo che giustificano una dura opposizione. Dalla combinazione tra legge elettorale “italica” e “riforma” costituzionale deriverebbe un cambiamento surrettizio della forma di governo da parlamentare a iperpresidenziale (non “presidenziale”, in quanto priva dei contrappesi che caratterizzano il sistema di governo degli Stati Uniti) o a “Premierato assoluto”, per richiamare l’espressione con la quale Leopoldo Elia bollò nel 2005 la riforma della seconda parte della Costituzione approvata dall’allora maggioranza di centrodestra e poi bocciata sonoramente nel referendum popolare del 25/26 giugno 2006. Lo stesso impegno occorre oggi spendere per respingere con il voto la controriforma ideata da Renzi e Berlusconi e portata avanti anche con il sostegno degli ascari di Verdini, che mette in discussione gli equilibri costituzionali e quindi la tenuta del sistema democratico.
"micropolis", dicembre 2015
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