25.3.17

Aborto. I viaggi della 194 in cerca del medico che non c’è (Lidia Baratta)

Articolo vecchio (un anno e più). Forse i problemi qui denunciati sono stati felicemente risolti, ma l'applicazione della 194 risulta tuttora problematica in molte regioni. (S.L.L.)

La decisione è presa: C. non vuole tenere il bambino. In Italia la legge 194 del 1978 le assicurerà consulenza, esami medici, aborto. Sulla carta. Perché quello che la aspetta, nell’Italia del 2015, è un percorso a ostacoli, fatto di burocrazia, medici obiettori e strutture blindate. Code infinite, mentre il tempo pressa. Eppure anche quest’anno si è brindato alla riduzione delle interruzioni di gravidanza, scese per la prima volta sotto le 100 mila. Ma qualcosa non torna. Gli aborti calano, ma sono sempre meno le strutture che li fanno. Così abortire diventa uno slalom crudele, nel quale perde chi ha meno informazioni, sostegno, reddito. O vive nella regione sbagliata.
Presa la decisione, la prima cosa che serve è un certificato per l’interruzione di gravidanza. C. fa il test e l’ecografia e va dal medico di famiglia. Che le risponde: «Mi dispiace, sono obiettore di coscienza». Non le resta che rivolgersi a un consultorio. In Lombardia, dove vive, non se ne vedono tanti: solo uno ogni mille donne. La media in Italia è di 1,5, distribuiti a macchia di leopardo: la concentrazione più alta in Valle d’Aosta, con quasi otto strutture per mille donne; la più bassa in Molise, dove si arriva allo 0,6. La legge non indica un numero minimo. Tutto è lasciato in mano alle regioni. E il risultato è che, di fatto, la 194 in molte strutture non viene applicata.
Dopo il no del suo medico, C. si rivolge allora a un consultorio di Milano. Telefona a uno in centro, non lontano dal Duomo. «Possiamo fissare un appuntamento non prima di una settimana», dice la segretaria. Dopo sette giorni si presenta. Fa prima il colloquio con una psicologa, poi le visite mediche. In un’ora e mezza è fuori con il certificato in mano. Ora deve “solo” cercare l’ospedale dove abortire. I consultori più virtuosi, confinati tra Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna, prenotano direttamente l’intervento. Ma non è questo il caso.
La legge 194 prevede sette giorni di riflessione dopo il rilascio del certificato. Ma di giorni, prima che C. arrivi all’aborto, ne passeranno molti di più. «Ti presenti che sei di sei-sette settimane, ma non fai l’intervento prima delle dieci settimane», dice Mario Puiatti, presidente dell’Associazione italiana per l’educazione demografica. «In questa attesa per la donna aumenta non solo il rischio medico, ma anche quello psicologico». Lo dicono tutti gli studi scientifici: prima si pratica l’aborto, più diminuisce il pericolo di complicazioni.
In Italia non è così. Si entra in un labirinto di certificati e colloqui, mentre l’orologio continua a ticchettare. E il ricorso agli aborti d’urgenza, per evitare lo sforamento del tempo massimo dei 90 giorni o delle sette settimane per l’aborto con la pillola Ru486, aumenta di anno in anno.
La procedura prevede due tappe: il prericovero e l’intervento. Ma il prericovero, nella maggior parte dei casi, non si può prenotare. Bisogna presentarsi all’ora e nel giorno stabilito dall’ospedale. «Meglio arrivare prima», dice la centralinista del Niguarda di Milano, «prendiamo solo le prime dieci». Dopo poco più di un’ora, la colonnina elettronica del blocco Sud ha già distribuito i primi dieci bigliettini bianchi con la scritta “prericovero Ivg”. Stesso discorso al San Camillo di Roma: «Non si può prenotare, deve presentarsi alle 7, prendiamo solo le prime dieci». Se sei l’undicesima, ritenti un altro giorno. Magari arrivando alle 4-5 del mattino, come consigliano le infermiere. A mettersi in fila ci sono soprattutto donne giovani, tra i 20 e i 35 anni. Oltre una su tre (34%) è straniera: una percentuale molto superiore a quella della presenza delle immigrate sul totale della popolazione, che accentua la vulnerabilità sociale del fenomeno. E diverse sono anche le caratteristiche delle straniere che abortiscono, rispetto alle italiane: in più della metà dei casi sono sposate e non hanno un lavoro stabile, mentre tra le italiane che abortiscono ci sono più occupate e nubili.
Una volta superata la prima fase, si può fissare l’appuntamento per l’intervento. La regola è questa: passano prima le donne più avanti con la gravidanza. Nel 62% dei casi si aspettano meno di 14 giorni, ma quasi un quarto delle donne attende fino a tre settimane. Dipende tutto dalla regione, dall’ospedale e dal numero di non obiettori presenti. Che spesso si contano sulle dita di una sola mano. Al Niguarda di Milano sono solo due. Al Policlinico Umberto I di Roma ce n’è solo uno. Al San Paolo di Napoli si sale a tre.
Ma ci sono anche strutture dove lavorano solo medici che hanno scelto l’obiezione di coscienza. Tra i ginecologi, il 70% si dichiara obiettore. Con regioni, come il Molise e la provincia autonoma di Bolzano, dove più di nove ginecologi su dieci non praticano l’aborto.
Risultato: soltanto il 60% degli ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia garantisce il ricorso all’aborto. L’altro 40% non lo fa, cioè non applica la legge. Come sapere se quello più vicino a casa è uno di questi? Un database con gli ospedali che non fanno l’interruzione di gravidanza non esiste. Devi essere fortunata a trovare quello giusto. «No, qua non la facciamo, deve chiedere al San Camillo o al Sant’Eugenio», rispondono con naturalezza dal reparto di ginecologia del policlinico Tor Vergata. Anche in un altro policlinico universitario della capitale, il Sant’Andrea, l’interruzione volontaria di gravidanza non è praticata. E in tutto il Lazio, sono dieci le strutture che non applicano la 194. In Lombardia, le strutture obiettrici sono più di trenta. All’ospedale di Gavardo (Brescia), per esempio, tutti e otto i ginecologi presenti non sono disposti a praticare l’aborto.
Per risolvere il problema gli ospedali possono ricorrere ai “medici a gettone”. Ma con i tagli alla sanità ormai si fa sempre meno. «E quando i non obiettori di un ospedale vanno in pensione, spesso il servizio viene sospeso», dice Silvana Agatone, presidente della Laiga, Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/78. «È successo a Jesi, ma anche a Napoli».
Il risultato, spiega Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici, è che «per abortire le donne sono ancora costrette a migrare anche da una regione all’altra». Nel 2013, in tutta Italia, i ginecologi non obiettori erano meno di 1.500. «Questi numeri bassi sono anche frutto della condizione di svantaggio professionale che questa decisione comporta, soprattutto per i più giovani», dice Cozza. L’età media dei non obiettori, non a caso, è superiore ai 50 anni.
Così come diminuiscono i non obiettori, gli ultimi dati dicono che nel 2014 anche gli aborti sono diminuiti del 5,1% rispetto al 2013. Il tasso di abortività è di 7,2 per mille donne tra 15 e 49 anni, in calo del 5,9% rispetto al 2013 e tra i più bassi d’Europa. Si può pensare che le campagne di informazione per la prevenzione abbiano funzionato. Ma a guardare i dati, il 42% delle under 25 italiane non usa ancora nessun metodo contraccettivo durante il primo rapporto sessuale. Un’altra spiegazione potrebbe essere la diminuzione del tasso di fecondità, sceso nel 2014 all’1,39 figli per donna. Siamo quindi una popolazione che fa pochi figli, usa pochi contraccettivi, e ricorre pochissimo agli aborti. Anche qui, qualcosa non torna. «La domanda che dobbiamo porci è: l’offerta dei nostri ospedali corrisponde alla domanda di aborti?», dice Silvana Agatone. Non a caso, il tasso di abortività è più alto nelle regioni con i servizi migliori (Emilia Romagna, Liguria, Piemonte), e più basso nelle regioni che hanno più obiettori e liste d’attesa più lunghe (Calabria, Trentino, Veneto).
Il dubbio che corre tra gli operatori e gli esperti è che, davanti a tante difficoltà, stiano aumentando gli aborti clandestini. Secondo la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, i numeri sul clandestino sono stabili. Ma i calcoli sono stati fatti in una ricerca condotta nel 2012 con modelli matematici elaborati prima del 2005, cioè prima dell’introduzione delle pillole abortive. «I modelli matematici applicati», spiega Anna Pompili, ginecologa di Amica, Associazione medici italiani contraccezione e aborto, «oggi sono inadeguati a comprendere il fenomeno perché non tengono in considerazione una nuova modalità di aborto sempre più frequente: il farmacologico fai da te. Il panorama è cambiato, noi usiamo gli stessi modelli e diciamo che nulla è cambiato?», si chiede Anna Pompili. Mirella Parachini, ginecologa al San Filippo Neri di Roma, racconta di una scomparsa inquietante, quella delle donne nigeriane e cinesi. Dove sono finite? «A un certo punto sono scomparse», conferma Anna Pompili. «Sono diminuite le fasce sociali più deboli, ma parallelamente non abbiamo notizie di aumenti evidenti nella contraccezione».
L’aborto sommerso di oggi è molto diverso da quello del passato. «Se prima ci si affidava a qualcuno che inseriva dei ferri nell’utero», dice Anna Pompili, «oggi si compra una pillola». Come il Cytotec, un farmaco contro l’ulcera controindicato in gravidanza perché «aumenta il tono e le contrazioni uterine che possono causare l’espulsione parziale o totale del feto». D’altro canto basta fare qualche giro su Google per poter scegliere il miglior “kit per abortire”, o fare un giro alla stazione Centrale di Milano o alla stazione Termini di Roma per procurarsene un po’. Certo non sempre va bene. E molte donne finiscono al pronto soccorso dopo aver assunto questi farmaci, denunciando un aborto spontaneo.
«Qua nell’ultimo anno è successo due volte», raccontano le ostetriche dell’ambulatorio di medicina solidale di Tor Bella Monaca. «Due giovani nigeriane si sono presentate con forti dolori e sanguinamento intenso e, davanti alle nostre domande, hanno raccontato di aver preso pillole per abortire fornite da amiche».
Chi vuole abortire oggi in Italia «deve essere ben determinata a farlo», conferma la ginecologa Anna Uglietti, a lungo responsabile dell’ambulatorio 194 della clinica Mangiagalli di Milano. «È un percorso a ostacoli, spesso ti senti dire di no e sei costretta a vagare tra consultori e ospedali». Ma la situazione «sarebbe già diversa ricorrendo di più all’aborto farmacologico. È una procedura più snella e meno aggressiva, per la donna e per il medico», dice Uglietti. «Il farmaco è somministrato dall’infermiere, il medico non obiettore deve prescriverlo e fornire assistenza. Si riuscirebbe così a garantire un servizio più efficace e più sicuro». Lo raccomanda anche l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma da noi resta assai poco accessibile. (ha collaborato Federica Delogu)


“pagina99we”, 28 novembre 2015

Nessun commento:

statistiche