11.3.17

Poesia: per chi? Una lettera a “Rinascita” (Umberto Migliorisi, Ragusa, 1975)

Ritrovo tra i miei ritagli questa lettera al direttore di "Rinascita" (il prestigioso settimanale di politica e cultura fondato da Togliatti, al tempo diretto da Alfredo Reichlin) che dimostra peraltro la serietà con cui nel Pci si guardava ai problemi della cultura. Del compagno ragusano autore della lettera non so nulla, mi pare tuttavia che certe sue considerazioni sulla comunicazione poetica conservino una grande attualità dopo quarant'anni e più. Peccato che (quasi) non ci sia più il “movimento operaio organizzato”. (S.L.L.)
Gennaio 2017, Perugia, Serata di poesia alla Società Operaia di Mutuo Soccorso (foto Marco Giugliarelli)

Caro direttore,
sarebbe stato più interessante che gli appunti di Sereni (vedi Rinascita, n. 37) avessero trovato, effettivamente, destinatario il pubblico del festival dell'Unità a Milano. Più interessante perché, io credo, in un ambito più vario e quindi un po' diverso da quello dei lettori di Rinascita, gli interventi avrebbero dato un'idea più esatta di quanto la gente gradisca i rapporti, e che tipo di rapporti, con la poesia, e con quale poesia. E chi ne avrebbe tratto insegnamento, a modifica — o, chi sa, anche a conferma, ma io spero a modifica! — di certe sue convinzioni sarebbe stato per primo lo stesso Sereni. Il quale, per esempio, non è convinto che «l'unisono di vibrazione di un pubblico di spettatori all'uscita di certi film o l'afflusso di folla giovanile... per un concerto di jazz...» possano riprodursi ad un recital di poesie o ad uno spettacolo «montato» con i testi di un libro di poesia.
Eppure, lo stesso giorno che leggevo su Rinascita lo scritto di Sereni «Poesia: per chi?», avevo appena letto sul quotidiano della sera di Palermo “L'Ora” la seguente cronaca: «Successo del Poeta in piazza. Vivo -successo sta riscuotendo in questi giorni in molti centri siciliani come Capizzi, Caronia, Paceco, Marineo, lo spettacolo presentato dal gruppo Il poeta in piazza che ha preso il nome dall'ultimo libro di Ignazio Buttitta e da cui trae alcuni brani per lo spettacolo. Il gruppo riscuote il successo e l'attenzione locale soprattutto per i motivi umani, sociali e culturali trattati con intensa partecipazione emotiva e con aggressività musicale, ecc. ».
Ma, ritornando a Sereni e all'augurabile scioglimento del «partito dei poeti, con le sue gerarchie, liturgie, ecc. » il problema. anche se complesso, non è di aspettare, come dice Ferretti «una radicale trasformazione della società capitalistica», o, come dice Sereni, «la sostituzione dei valori oggi in crisi... mediante altri valori». Non si risolve cioè la propria insoddisfazione, proiettandola semplicemente nel futuro. Il problema è, prima di tutto, convincersi della necessità di sostituire all'uditorio invisibile, alla folla che egli «suppone» esistente e presente, un pubblico visibile e ben reale. Comunicare o «accomunare», in definitiva «operare in versi», restano parole senza senso se non si risolve o, almeno, se non si tenta di risolvere questo problema primario: quello di avere un pubblico reale, sempre più vasto e composito.
Si tratta, allora, di vedere se questo non sia prima di tutto un problema «politico », cioè di organizzazione. Come i festival dell'Unità sono frutto di una organizzazione, così le recite di un poeta (o di chi per lui) possono essere frutto di una organizzazione che abbia però carattere di periodicità e quindi di continuità. E non è detto che la poesia debba sempre andare nuda e cruda all'ascoltatore. Ci si può anche servire di strumenti spettacolari, fra cui ad esempio il teatro.
Ma non basta. C'è anche, strettamente legato al problema del pubblico, un altro problema importante: il problema del linguaggio. Se si sa, e ci si contenta, di dover affrontare solo un pubblico di letterati, studiosi e... «amatori», tale problema si riduce a un mero gioco dialettico tra le proprie ascendenze letterarie ed esigenze di volta in volta diverse. Ma se ci si comincia a preoccupare della «zona d'irradiazione della poesia», della competitività della narrativa e dei «vari prodotti della civiltà dell'immagine», e insomma della poesia ridotta quasi al silenzio, allora diventa d'obbligo anche un «problema del linguaggio», cioè di come si può parlare alla gente, oggi, e farsi capire.
Ossia diventa fondamentale per il poeta l'esigenza della chiarezza, che non è necessariamente sinonimo di facilità o semplicismo, ma vuol dire innanzitutto andare al fondo, al centro delle cose, a ciò che si dice «verità» o «bellezza». Diceva Nazim Hikmet che «la forma della poesia è data dalla necessità della vita» e che egli aveva cambiato forma in diverse occasioni, adattandosi alle necessità di situazioni diverse o di interlocutori diversi. Brecht, dal canto suo. si crea volutamente delle forme didascaliche affinché la sua ironia e la sua chiarezza raggiungano un pubblico reale, ma fa di più: dà alla propria poesia le dimensioni dello spettacolo, allargando così la cerchia dei propri interlocutori.
Che cosa si è fatto invece in Italia, da parte dei letterati cosiddetti « tradizionali »? Si è lasciato che un manipolo di «terroristi» (mi si passi l'appellativo, almeno in considerazione dei risultati che hanno ottenuto) si ponessero questi problemi solo in rapporto e nell'ambito di una nuova «società letteraria», certo più scaltrita della precedente e predisposta, in forme apparentemente avanguardistiche. ad inserirsi in maniera nuova nelle strutture del neocapitalismo e della sua industria culturale. Il danno che l'exploit del «gruppo '63» ha prodotto in Italia è stato, secondo me, incalcolabile. Nemmeno paragonabile alla iniziale confusione prodotta negli anni '50 in Italia dall'astrattismo. Il quale, diffondendosi quasi per reazione a certo provincialismo o piattezza «neorealistica», divenne, al di qua della legittima esperienza neoavanguardistica, a tal punto una moda da cancellare i confini tra cultura e in poesia sia successo così. E lo avverte anche Sereni quando dice che «usava una decina di anni fa formare in poesia ossia esprimere o inventare, mentre oggi si opta più per la comunicazione che per l'espressione» (mi si perdoni il « rimontaggio », ma credo sia pur quello il senso delle sue parole!). Nella sostanza, che differenza c'è tra lo spontaneo «informe» di migliaia di giovani poeti italiani di oggi e la «razionale», raffinata «forma dell'informe» dei «novissimi»?
Prima ancora, dunque, di affrontare un problema di orgaganizzazione del pubblico, bisogna che nel mondo della cultura si affermi, con estrema chiarezza e senza presunzione, il concetto che «il poeta vero» non è uno stato di eccezionalità aristocratica, ma l'onesta condizione lavorativa di chi «forma» in poesia od opera specificamente per «accomunare» ad un senso, ad un discorso o ad una gioia un pubblico reale. Dopo di che, si potrà chiedere anche, e con pieno diritto, al movimento operaio organizzato di fare posto adeguato, nella nuova prospettiva della sua politica culturale, al prezioso lavoro del poeta.
Umberto Migliorisi
Ragusa


“Rinascita” n.45, 14 novembre 1975

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