13.3.17

Racconti perugini di Marcello Catanelli. I fritti e Capitini (Salvatore Lo Leggio)

Marcello Catanelli, perugino, viene dalla contestazione, quella del lungo Sessantotto italiano per generazione e scelta, ma anche quella di generazioni precedenti: il padre, ottico, antifascista militante e resistente, anarchico e libertario, vicino a socialisti e comunisti ma capace di esprimere una voce autonoma e critica in momenti cruciali, amante appassionato della sua Perugia e partecipe delle sue sorti; e – tra gli amici più cari del padre – la figura esemplare di Aldo Capitini, al quale della contestazione piaceva in primo luogo per il nome e il concetto che il nome richiamava, per l'idea del cittadino che, senza complessi, prende la parola e chiede ragione dei suoi atti al potere, a tutti i poteri.
Dopo la stagione della militanza rivoluzionaria e dell'azione collettiva Catanelli non ha avuto paura di sporcarsi le mani e ha dato in molti modi un contributo di idee e di impegno alle comunità di cui si sente parte, la sua regione e soprattutto la sua città, da medico specializzato in Igiene e Sanità pubblica, da ricercatore, da dirigente della Sanità pubblica, da consigliere e assessore in Comune (per Rifondazione Comunista). Su Perugia ha scritto, insieme a Fabrizio Ricci, un libretto (Le città di Perugia, Era Nuova, 2005) che espone e argomenta un'idea originale di città policentrica, pressoché agli antipodi delle pratiche della nuova amministrazione di centro-destra i cui esponenti tornano a parlare di “contado”, ed ha prodotto, insieme a Guglielmo Benemio, un apprezzato documentario che per modestia definisce “amatoriale”.
È ancora fresco di stampa, uscito sul finire dell'anno scorso per Morlacchi editore, il libro a sua firma di cui qui ci occupiamo, Perugia ormai troppo lontana. Il titolo e la bella foto di una notte in città che – decolorata - fa da base alla copertina potrebbero lasciar pensare a una rievocazione di uomini, donne, luoghi, abitudini di tempi andati e finiti, non priva di accenti nostalgici. Non nascondo che, da perugino d'elezione (ho scelto di vivere quasi 40 anni fa), pensavo di trovare nel volume notizie, curiosità, conferme (o anche smentite) a mie intuizioni e che imbattermi invece in un libro di racconti è stato dapprincipio una delusione. La prima, superficiale, impressione era che la città faccia solo da sfondo a vicende che potrebbero essere accadute in molti altri luoghi. Così non è, come si vedrà.
Il volume contiene cinque racconti. I primi quattro sono ambientati a Perugia e dintorni, il quinto ha ambientazione rurale, nelle campagne tra Umbria, Alto Lazio e Toscana, fino alla Maremma.
I racconti perugini hanno al centro un giovane, Ernesto, che sembra essere, almeno in parte, una proiezione dell'autore e costituiscono, nel loro insieme, una sorta di romanzo di formazione, in cui trovano posto la famiglia, la scuola, le amicizie, i gruppi e i movimenti di lotta e poi anche l'arte, la letteratura, la religione, la curiosità verso la storia, l'odio per la guerra. Un ruolo particolarmente importante assume l'educazione sessuale e sentimentale: il giovane maschio si confronta con figure femminili fortemente caratterizzate, di tenace concetto, con una consapevolezza di sé che sembra precedere il nuovo femminismo e fondarlo. Niente a che vedere con gli “angeli del ciclostile” di cui un tempo si favoleggiava.
In Perugia un po' troppo lontana prevale la rappresentazione di situazioni sulla narrazione di avvenimenti e sono rari gli eventi e i momenti propriamente drammatici, ma sarebbe sbagliato dire “non succede niente”: il lettore attento non mancherà di individuare i punti di svolta. Quanto alla scrittura, all'impasto linguistico che rimpolpa, soprattutto nelle descrizioni o nelle introspezioni psicologiche, il linguaggio base della narrazione, è evidente una ricerca che approda a risultati non omogenei nei vari racconti, i quali, come svela Catanelli nella sua postfazione, risalgono anche nella scrittura a tempi diversi. La mia impressione che l'autore, scrittore non professionista, ma colto e nutrito di eccellenti letture, riesca a dare il meglio di sé nei dialoghi, anche quelli particolarmente impegnativi, su temi politico culturali o esistenziali, ed in uno dei racconti, Al cinema, la sera, che ha come centro quel Modernissimo che era d'éssai senza bisogno di proclamarlo e che ho avuto la fortuna di conoscere nei suoi ultimi splendori tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta.
E torniamo a Perugia, i cui luoghi – di certo molto amati – sono spesso utilizzati come fondale, ma che vien fuori meglio quando il sito entra in relazione con l'uomo che lo abita e ne anima con i suoi pensieri, le sue suggestioni e i suoi dubbi gli angoli medievali, gli scorci paesaggistici, i meravigliosi panorami che s'osservano dall'alto dell'acropoli. Io ho trovato molto “perugine”, molto in sintonia con le ragioni che – tanti anni fa - mi hanno portato a vivere qui, descrizioni d'atmosfera come quella che segue, di un locale da “fritti” in un vicolo del centro: “Alla mescita un anziano magro, con i capelli tagliati cortissimi, assorto nella somministrazione di baccalà, patate, supplì e a quella velocissima di bicchieri di vino, riempiti fino all'orlo, scolmati dagli avventori con un primo sorso,mentre erano ancora sul banco del bancone, per non perdere neanche una goccia, e bevuti poi tutti di un fiato per essere immediatamente lavati ed altrettanto immediatamente riempiti”.

Una chiave di lettura del libro, peraltro suggerita dalla postfazione che sottolinea distanze sempre meno colmabili tra il mondo di ieri e quello di oggi, soprattutto nei modi della comunicazione, può essere il titolo. Lo stilema “ormai troppo lontana” deriva da una canzone, quella Lontano lontano con cui Luigi Tenco aveva partecipato nel 1966 al Disco dell'estate, il cui testo è nel libro interamente riprodotto a mo' di epigrafe. Nella canzone si immagina che in un contesto totalmente cambiato, da un sorriso, da un'espressione, da un qualcosa d'indefinito riemergano frammenti del passato, capaci di restituire per un momento emozioni perdute. Un po' di rimpianto in questi casi è inevitabile e nel libro c'è la traccia di un rimpianto politico. Vi compare, non nominato ma riconoscibile, Aldo Capitini, un vecchio professore che vota alle assemblee studentesche e a cui nessuno ha il coraggio di dire che quello è un diritto dei soli occupanti: “Rappresentargli pubblicamente quel divieto sarebbe stato invece l'inizio o la continuazione di un discorso che avrebbe sicuramente messo in discussione quel potere di pochi che era presente comunque anche in quell'aula”. Vale la pena di porsi una domanda più generale. Che cosa sarebbe successo se il Sessantotto avesse dialogato con Capitini, se la morte non lo avesse strappato all'impegno civile e alla lotta? Domanda, ovviamente, senza risposte.  

"micropolis", febbraio 2017

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