29.3.17

Ottocento. Roma Capitale: l'invasione dei “buzzurri” e il ponte di Ripetta (Lucio Caracciolo)

1878. Costruzione del Ponte metallico di Ripetta (Pinterest - Collezione Roma sparita)
Dio ha maledetto Roma Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall' Italia laica al millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri" e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere. Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse "dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità" nient' affatto "celeste".
Converrà anzitutto tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l' annesso squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo: "Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore. Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a Trastevere e nell' ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo Massimo. Il viandante che s' avventura per le anguste strade cittadine resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e lo stato di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e spesso impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso transalpino; quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni distratti, essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si aprono come baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico di carri, botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie, irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un accidentato percorso di slalom speciale.
Il fondo stradale è evocato dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia chi si attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe, graffia ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti delle unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie". La “Gazzetta di Firenze” annota malignamente che se i piedi potessero votare per la Capitale d' Italia, certamente non eleggerebbero la Città Eterna. E le case? Se escludiamo i palazzi in pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo d'occhio ben misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate l'una all'altra dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e spesso fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo - prodotto dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta romanesca - il quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate invettive contro le abitudini igieniche dei quiriti.
In questa Roma attardata convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà e piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti, fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d' industria.
Roma sembra dar ragione ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è destinata a vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda, poscia con lo scrocco". Per Roma l' arrivo degli italiani è una rivoluzione. Un equilibrio secolare è stravolto. Mentre Pio IX si esilia nei palazzi vaticani, donde scaglia anatemi contro i "figli di Belial", "rappresentanti della più velenosa bava d' inferno", in città si riversa un'orda di "buzzurri", soprannome non benevolo (significa "venditori di castagne") con cui i popolani designano i loro liberatori. Da Firenze arrivano a migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta Italia accorrono commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal miraggio di una nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco premere un esercito di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati. Roma è un sogno a buon mercato, una promettente California. L'ondata d'immigrazione triplica in poche settimane il prezzo degli affitti. Il Comune è costretto a requisire financo i fienili. Cantine e sottoscala vengono disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale segnala che all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono pochi centesimi per dormire "con tutt' er comido", cioè soli in un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso della notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma è per Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha emancipato la sua capitale dal dominio clericale per farne il centro della scienza. "La scienza per noi a Roma è un dovere supremo", proclama lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici anzi devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente che vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si possano affidare all'umanità".
Dunque è chiaro: occorre costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio a Roma papale". In termini urbanistici la direttiva selliana significa edificazione di nuovi quartieri sui colli, soprattutto Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi centri di ricerca scientifica), e nell'area intorno a via Venti Settembre, modernamente concepita come "asse attrezzato" lungo il quale si scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova capitale è l'enorme palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio della burocrazia, innalzato per volere di Sella a pochi passi da Porta Pia. A perenne monito contro le mire reazionarie del clero temporalista, Sella suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un monumento al centurione romano, che piantando l'insegna esclami: "Hic manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma "cervello supremo della nazione", città della burocrazia e della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo astratta per resistere all' assalto dell'immigrazione di massa e della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari. La Compagnia Fondiaria Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della superficie compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi possedimenti intorno all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i primi "casermoni", mastodonti di cinque-sei piani destinati agli impiegati ministeriali. La Italo-germanica si accaparra centomila metri quadrati al Castro Pretorio e ai Prati di Castello, dove ha grossi interessi anche la Banca di Credito romano. Non più di sei o sette gruppi capitalistici monopolizzano in breve il mercato dei suoli e degli immobili. Il Comune cerca di regolare la spinta all'urbanizzazione "selvaggia" col sistema delle convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul reciproco vantaggio: il municipio appalta terreni, concede incentivi, provvede a costruire strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne affida l'edificazione a imprese private, che costruiscono, secondo i loro tempi e le loro necessità, case a reddito continuo. Quanto al piano regolatore, vale poco più di un pezzo di carta. A che serve accennarvi uno schema di sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato sui quartieri alti, quando la stessa giunta approva un ordine del giorno in cui il piano regolatore è ridotto a "piano di massima", mentre si avverte che "il Consiglio si riserva di discutere partitamente ogni tratto di lavoro allorquando verrà l'opportunità dell' esecuzione"? Mentre il Campidoglio "si riserva" o deve fare i conti con sedicenti architetti che, fiutata la possibilità di guadagno offerta dalle necessità di una nuova capitale, si lanciano in ardite proposte come quella di impiantare la Camera dei Deputati al Colosseo, coprendolo con una volta di cristallo, le imprese immobiliari spadroneggiano. Non è ancora entrato in vigore il piano regolatore, e già il Comune ha firmato sette convenzioni per quartieri localizzati al di là delle mura cittadine.
La partita decisiva tra gruppi privati e pubbliche istituzioni si gioca sulla riva destra del Tevere, attorno a un terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione spontanea, incassato fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant' Angelo: i Prati di Castello. Un consorzio di finanzieri di Francoforte, Amsterdam, Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito individuato il cuore della futura città e ha acquistato a prezzi agricoli quell' area paludosa. Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta su incarico del consorzio il progetto di un grande quartiere residenziale, solcato da un boulevard che dovrà collegare Piazza del Popolo a Piazza San Pietro, sventrando il Borgo. Due ponti collegheranno il nuovo quartiere al centro storico. Stato e Comune si incaricheranno di rafforzare gli argini del Tevere per impedire le inondazioni. Accogliere questo progetto significherebbe stravolgere l'idea dello sviluppo unidirezionale verso Est, sostenuta dai proprietari di quelle aree, da Sella e dalla maggior parte dei pubblici amministratori. La commissione tecnica del Comune si orienta perciò a riservare i Prati di Castello per "grandi piazze, fiere di bestiame, ippodromi, mercato di commestibili, locali di pubbliche esposizioni, stabilimenti di bagni e cose simili". Sulle pendici di Monte Mario si progetta addirittura un "Tivoli", un enorme Luna park servito da una funicolare.
La contesa fra "prataroli" e "monticiani" (i fautori dello sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero". Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete". Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i "buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del 1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma la prassi pilatesca del Comune facilita l' urbanizzazione "spontanea" pilotata dai trust finanziari.
Non scegliendo il Comune, scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a macchia d' olio.

la Repubblica, 18 novembre 1984

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