11.3.17

Jolanda Insana: la violenza creativa della vera poesia (Valerio Magrelli)

Se la poesia è scrittura, esistono poeti che riescono a fare della voce un'arma supplementare. Fra gli italiani, Amelia Rosselli, e certo assieme a lei Jolanda Insana, spentasi ieri a Roma dove viveva dal 1968.
Era nata a Messina quasi ottant'anni fa. Laureata in filologia greca, insegnò nei licei, collaborando a quotidiani e riviste. Esordì tardi, nel 1977, ma nel 2002 vinse il Viareggio con La stortura (Garzanti), e già nel 2007 lo stesso editore pubblicò l'intera sua opera. Tradusse autori contemporanei, ma soprattutto classici. Le versioni della "sua" Saffo, e ancora di Plauto, Alceo, Lucrezio o Marziale restano fra le più poeticamente memorabili dopo quelle di Quasimodo. D'altronde amava dire: «Chi non ha mai tradotto, scagli la prima pietra».
Già dal debutto, l'italiano si univa al dialetto siciliano in una lega di rara violenza, le cui ondate di calore espressivo, ha notato Andrea Cortellessa, segnano Fendenti fonici (1982) e Il collettame (1985). Qui la sua "ruvida e dura scorza" si apriva allo strazio del canto — allo spasimo, verrebbe da dire, citando il conterraneo Vincenzo Consolo. Al centro del lavoro stavano corpo, amore, malattia, ma senza dimenticare, spiegava Emanuele Trevi, un'anima sui generis, la quale, priva di luce, assomigliava piuttosto ai grevi umori organici descritti dai medici medievali: «Dove sei dove sei / anima mia sfiorami / non vedo / anima mia chiavicona sconciata», e ancora, per dissipare ogni dubbio, «sconsacrata scorreggia».
Ricordiamola così, questa grande poetessa, come un nuovo Jacopone, tanto sarcastico e laico, quanto vulnerabile.


La Repubblica, 29 ottobre 2016

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