27.3.17

Massimo D'Azeglio e i racconti del sor Checco (Nello Ajello)

Massimo D'Azeglio
"Non ho più notizie, nè di te, nè del signor Checco Tozzi", scriveva nell'ottobre del 1856 Alessandro Manzoni a suo genero Massimo d'Azeglio. "Le prime, le spero ottime; le seconde, mi piacciono qualunque siano".
La lettera - raccolta nel terzo volume dell'Epistolario edito da Mondadori - non presenta molti motivi di curiosità. È una classica, breve richiesta di raccomandazione: Manzoni ne indirizzava più d'una a d'Azeglio, che era stato presidente del Consiglio del regno sardo-piemontese e che ancora contava, in politica, a Torino. Nella chiusa del biglietto spicca però quel nome insolito, Checco Tozzi, cui l'anziano scrittore sembra rivolgere un acuto interesse, tanto da dolersi di non saperne più nulla. Di chi si tratta? Sul fatto che Tozzi - o meglio "il sor Tozzi", abitante in Marino, cittadina situata sui Castelli alle porte di Roma - sia esistito davvero, si può nutrire qualche dubbio, nonostante le continue profferte di "verità" e di realismo che Massimo d'Azeglio inserisce nei suoi scritti autobiografici. Si tratta comunque di un nome che - come Manzoni aveva intuito - sarebbe ingiusto non figurasse nella schiera, d'altronde abbastanza ristretta, delle figure salienti della narrativa italiana dell'Ottocento. Una figura certamente minore, o - se si vuole - minima, ma a suo modo poliedrica.
D'Azeglio la inventò - o la riprodusse dal vero? - in una serie di articoli composti nel 1856 per il settimanale torinese “Il Cronista”, poi ripresi e ampiamente rimaneggiati nei Miei ricordi, sei o sette anni più tardi. Ora a quel personaggio azegliano viene dedicato un intero volume (Massimo d'Azeglio, Il sor Checco Tozzi, racconti romani, Guida, pagg. 119, lire 8.500), che ne ripropone le gesta in maniera integrale, senza i ripensamenti e le varianti che l'autore - uno dei padri della patria per il Piemonte in procinto di diventare Italia - ritenne opportuno apportarvi nella sua autobiografia complessiva.
D' Azeglio - è noto - nutriva per Roma e dintorni un amore che era in gran parte di natura artistica. Lo seducevano i suoi paesaggi, e non soltanto quelli urbani, d'impronta classica, rinascimentale, barocca, ma anche e soprattutto scorci di campagna e desolate valli bucoliche: quel "deserto" che, sulla metà del secolo scorso, ancora circondava la città. Per cogliere quest'ultima preferenza, basta seguire la descrizione, che egli fa, d'un viaggio, compiuto in un "legnetto a due cavalli", da Roma a Marino, la cittadina nella quale trascorre molti mesi fra il 1823 e il 1826, ospite nella casa-pensione gestita appunto dal possidente Checco Tozzi, lavoratore (o appaltatore) nelle cave di travertino. Sono quattordici miglia "a mezza costa del monte Albano" e ad attraversarli "non si vede un albero nè un' abitazione": "tutta pianura leggermente ondulata, sulla quale scorre libero lo sguardo per molte miglia, sino ai lontani monti; qua e là sorgono soltanto rovine e antiche tombe, ovvero lunghissimi acquedotti, di quei tanti che portavano fiumi d' acqua a dissetare gli antichi padroni del mondo". Quei mesi trascorsi da giovane, scorazzando, "solo, libero, in mezzo alle macchie del Lazio", influenzarono non soltanto la "maniera" di dipingere di d'Azeglio: a Roma, allievo del pittore fiammingo Martin Verstappen, risentì indirettamente della lezione di un paesaggista-principe come Hackert. Ma, ciò che più conta, quel soggiorno - preceduto da altri più brevi a partire dal 1814, quando egli aveva sedici anni - lo indusse a maturare su Roma e sull'"Italia media e meridionale" idee e propositi che non avrebbe più abbandonato e che, dato l'uomo, le sue successive funzioni e il suo prestigio, avrebbero esercitato un qualche influsso, sia didascalico che politico, su quelli che d'Azeglio medesimo definitiva "gli Italiani piccini", di là da venire.
Le immagini visive che si raccolgono intorno ai Castelli, fra Marino, Grottaferrata, Rocca di Papa e Castelgandolfo, e il panorama umano che si accentra intorno a Checco Tozzi e alla sua casa, diventano in fondo un blocco unico nella memoria azegliana: rappresentano, ai suoi occhi di piemontese, il Sud. Come già per lo Stendhal delle cronache italiane ambientate nel Rinascimento, per l' autore dell'Ettore Fieramosca la materia figurale offertagli da "questa" Italia è un impasto di energia anarcoide e di simpatica indolenza, di crudeltà e di gentilezza d' animo, di ribalderia e di spirito (o meglio di "esprit", alla francese), dote quest'ultima che fa difetto alla sua regione d'origine, il Piemonte. D'Azeglio ha sufficiente finezza per riconoscerlo: "Si suole, o si soleva dire: "L'esprit a tuè la France". Vogliamo credere che gran parte dell'Italia sia morta della stessa malattia? Però questa supposizione mi piace poco, a me che son nato in un paese che grazie a Dio non è morto, e non vorrei che argomentando a contrariis si venisse a credere d'aver trovato il motivo perché è vivo".
In pieno secolo diciannovesimo, per farla breve, l'Italia simboleggiata da Roma e dintorni sembra a d'Azeglio ferma al Cinquecento, ed egli è sempre in attesa di assistere a qualcuna delle scene descritte da Benvenuto Cellini nella sua Vita avventurosa e tracotante. Non soltanto gli anni Venti del secolo scorso erano "l'età d' oro dei briganti"; ma anche per i cittadini comuni il coltello e lo schioppo costituivano normali ingredienti di vestiario, così come in Piemonte (nota lo scrittore) l'ombrello. Fatti di sangue nascevano dai motivi più futili, ad opera di "matti gloriosi" dotati di temerità, di prepotenza e di una rusticana inclinazione al "beau geste". Ma i quadretti di d' Azeglio (e in ciò l' accostamento a Giuseppe Gioachino Belli o a Bartolomeo Pinelli è inevitabile) non mostrano soltanto scene di violenza. C'è tutto un contorno piacevole, blandamente aneddotico, "casereccio", che rende gustoso, specie a una lettura rapida, il suo reportage.
A parte il protagonista - usato in un certo senso come "buttafuori" - Checco Tozzi, una specie di don Gesualdo dei Castelli, self-made-man di paese, "prudente come il serpente se non semplice come la colomba", sono molte le vignette disegnate con sapiente candore. C'è il vecchio sor Baldassarre, cocchiere, anzi "maestro di stalla", dell'ambasciatore di Spagna a Roma, depositario di tutti i segreti necessari per "studiare il secolo XVIII visto dal sottinsù", cioè dai selciati e dalle scuderie della Città Eterna. Si trovano nobili "svitati" e agenti di polizia (quella polizia "che prospera in Italia, tutta orecchie e quasi senz'occhi"), poeti estemporanei e contadini mansueti ma soggetti a improvvisi accessi di violenza "privata".
Ci sono anche figure di donne: la moglie, la cognata del sor Checco, sottomesse a un maschilismo inevitabile e perfino derisorio; la sua giovane figlia, un rustico monumento all'indolenza, "una patata sotto forma umana"; il marito di costei, tale Virginio, che aveva messo a frutto quel ricco matrimonio "essendo sua passion dominante veder stabilito su inconcusse basi il grande affare della sua nutrizione senza obbligo d'alzarsi troppo presto la mattina". Accensioni di humour come quest'ultima ci ricordano la polemica che d'Azeglio conduceva contro la maniera di scrivere in uso in Italia, "uno dei paesi dove più abbondano i facili, i bei parlatori e dove più abbondano al tempo stesso gli scrittori illeggibili".
Ci sarebbe da obiettare che lo stesso d'Azeglio ha dato al suo paese, col romanzo Niccolò de' Lapi, uno dei libri più noiosi dell'Ottocento europeo. Ma egli probabilmente taglierebbe corto, dicendo che lo fece per amor di patria. Il patriottismo, in quanto senso della consanguinità italiana, è invece latitante in questo Sor Checco Tozzi. C'è più ammirazione che stima, più divertimento che consenso, quasi che, nel parlare di Roma e del suo contado, in d'Azeglio l'estetica avesse decisamente divorziato dalla morale e dalla politica. E qui l' accostamento a Stendhal - a parte la diversa qualità letteraria dei testi - è più preciso che mai. Nello scrittore francese, quanto più lo si vede affannato a glorificare le avventure e le congiure degli italiani nei secoli bui e ad osannare la qualità della "pianta-uomo" che cresce nella penisola, tanto più s'intravede lo sbigottimento al solo pensiero che gente simile venisse, per paradosso, chiamata a popolare (non diciamo a governare) la Francia. In questo, il subalpino d'Azeglio non sembra da meno del francese; e si ricordi che, fra i padri del Risorgimento, egli - l'apologetico descrittore, sulle tele e nei libri, dell'"urbe" nel tardo periodo papalino - fu uno dei più aspri avversari "preventivi" (sarebbe morto nel 1866) di Roma capitale.
Le sue obiezioni - espresse fin dal 1861 in un opuscolo dal titolo Questioni urgenti, in polemica con Cavour - erano dominate da un forte moralismo "storico": come si legge nei Miei ricordi, per lui l'antica Roma aveva incarnato "la glorificazione della forza ai danni del diritto" e "Roma papale" aveva abusato "della pazienza del mondo". Che senso ha, si chiedeva in sostanza d' Azeglio, farne il centro di una nazione libera e moderna? "Tutte le grandezze di Roma", egli sosteneva, "costarono prezzi di infelicità e di dolore agli uomini". E concludeva con un monito: "Impariamo dunque a non lasciarci abbagliare dall'ingegno, dalla gloria, da falsi splendori. Lodiamo e ammiriamo chi rende gli uomini felici. Condanniamo sempre e teniamo in dispregio chi invece li fa miseri e sventurati".


“la Repubblica”, 22 settembre 1984  

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