16.3.17

Rossana Rossanda. Senza nulla risparmiare né concedere (Alberto Asor Rosa)

Dalla copertina del libro che ho appena finito di leggere (La ragazza del secolo scorso, Einaudi), una bella, anzi bellissima signora dai capelli tutti bianchi mi guarda con aria malinconica e un po' perplessa. Mi guarda? No, guarda un po' di lato qualcosa che sta appena fuori della cornice della foto: alla sua sinistra, si direbbe. È «la ragazza del secolo scorso», Rossana Rossanda, diventata la signora di oggi - e di ieri.
Delle sue memorie - poiché di questo si tratta - si potrebbe dire sbrigativamente (penso che molti lo faranno) che sono la storia di una grande signora che è stata una grande comunista (o anche viceversa, non importa). Qualcosa di vero c'è in ambedue le definizioni, e anche nel loro accostamento. Ma a me pare che la questione sia più complessa e che l'immagine che Rossanda proponga di sé sia più problematica e persino più dolorosa: la storia di una vocazione politica destinata ad un fallimento pressoché totale («nessuna delle mie idee aveva funzionato, troppo presto o troppo tardi che fosse»), e che tuttavia non smette di sentirsi intimamente, cocciutamente, esemplare («c'è una punta di vero in quel che le mie amiche chiamano, dandomi grandissimo fastidio, delirio di onnipotenza, come se fra senso di colpa per non fare abbastanza contro un mondo inaccettabile e volontà di dominarlo il margine fosse sottilissimo»).
Ma vediamo. I ricordi iniziano con la nascita a Pola, da poco ricongiunta all'Italia, negli anni Venti del secolo scorso, e si chiudono con la vicenda della radiazione, sua e di altri, dal Pci nell' autunno 1969, per aver osato fondare “il manifesto” (su questo non casuale troncamento della narrazione tornerò più avanti). Il racconto corre sempre (sottolineerei l'avverbio) lungo tre contemporanei e paralleli piani di sequenza: sullo sfondo c'è l'Italia che cambia, con le sue complessità, anomalie e debolezze (un paese, pensa e dice più volte Rossanda, cui sono congeniti il «lasciar perdere» e il «rinviare», non meno tra i progressisti che tra i conservatori); in primo piano, la storia pubblica della protagonista, la sua militanza, i suoi atti politici, le sue scelte di schieramento; in mezzo, la sua storia segreta (interiore, intendo, non privata), il suo mutare nel tempo, la sua «educazione sentimentale» (come recita lo strillo editoriale sull'ultima di copertina) ovvero, come io preferirei definirlo, il lato umano delle cose.
I tre piani di sequenza, ripeto, ci sono sempre ma distribuiti nel racconto con un diverso equilibrio fra loro. È ovvio che nella prima parte, l'infanzia e l'adolescenza, prevalga quello di mezzo, verso la fine, quando la protagonista entra a far parte del gruppo dirigente centrale del Partito, s'imponga più decisamente il primo. Di grande intensità anche emotiva le pagine sull'Italia della grande guerra e sulla Lombardia, povera, industriosa e operaia degli anni della ricostruzione.
Pare a me che un libro così non si legga principalmente per sapere come sono andate le cose e perché. Da questo punto di vista, le domande che Rossanda racconta di aver ricevuto qua e là nel corso della sua vita («perché hai fatto questo?», «perché non l'hai fatto?», «perché lo hai fatto troppo tardi?») non solo non ricevono risposta, ma potrebbero anche aumentare di numero (ognuno di noi avrebbe da fargliene almeno una). Il libro di Rossanda è profondamente critico e problematico, e in taluni punti perfino impietoso (si leggano le pagine sulla sublime correttezza di Pietro Ingrao, la quale ad una lettura più politica potrebbe apparire irresolutezza e ingenuità), ma assolutamente, radicalmente antirevisionistico. A sé e ai suoi, alla sua «parte», insomma, Rossanda nulla risparmia, ma nulla concede all'avversario, a colui che sta dall'altra parte, al (mi verrebbe voglia di scrivere) «nemico di classe».
Fra questi due estremi - l'autocritica severa e al medesimo tempo l'autodifesa appassionata di una vocazione politica che coincide irrevocabilmente con una scelta di vita - si muove l'occhio attento, scrutatore perplesso e malinconico di questa protagonista, che aveva tutte le condizioni per fare tante altre cose più piacevoli e meno fastidiose e ha scelto di fare questa, difficile, esaltante, spiacevole e... ingrata, e ancora oggi non se n' è pentita. Sorprende (ma non tanto) che nel libro ci sia una descrizione assai limitata delle «giustificazioni ideologiche» della scelta comunista. Sì, s'intuisce, si sa, quale tipo di marxismo la Rossanda abbia frequentato e amato. Ma quel che lei vuole raccontarci non è come e perché lei abbia imparato a «pensare comunista»: quel che lei vuole raccontarci è perché lei ha «vissuto comunista», e perciò è entrata in quel partito, ci ha lavorato dentro, ne è diventata dirigente e ha cercato, sia pure vanamente, di cambiarlo. Insomma, la «serietà comunista», il sogno condiviso, la molteplicità dei destini che, grazie a quel contenitore, fra errori, ritardi, deformazioni, pure s' incontravano e si fondevano. Non, dunque - almeno non in primo luogo, - il partito delle segreterie federali o di Botteghe Oscure, ma quello dei «seminterrati» e delle sezioni di strada, il partito di «quelli che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro, a raccogliere i bollini del tesseramento» e che, così semplicemente facendo, «configuravano una società altra dentro a questa». Il partito di massa, l'identità collettiva, che a lungo andare (pensava, insieme a tanti altri Rossanda) avrebbe cambiato l'intollerabile stato di cose esistente, senza irragionevoli rotture rivoluzionarie, ma anche senza cedimenti opportunistici e sbandate verso la sfera seducente e onnivora del potere.
Forse è per questo (e spero di non dirle cosa sgradita) che il ritratto del dirigente comunista più pacificato e accettabile, più risolto anche di fronte alle sue enormi contraddizioni e al suo pesante passato, è proprio quello di Palmiro Togliatti, «cortese, conversevole e lontano, con voce uguale e sorriso breve, lo sguardo acuto», una sorta di padre saggio e accorto, poco incline alla benevolenza, ma almeno assai attento: «Quanto lo avrei criticato negli anni '70 lo rivaluto oggi, una volta accettato che il suo obiettivo non fu di rovesciare lo stato di cose esistenti, ma di garantire la legittimità del conflitto». La legittimità del conflitto e... e, naturalmente, direbbe Rossanda, la sua traduzione in linea politica in una direzione di marcia che, rinnovandosi, mantenesse viva la sintonia, che pure c' era stata (anni 1943-1956) fra Pci e sistema Italia.
Ecco perché la storia, - anzi, in questo caso, la Storia, - qui finisce con gli anni Sessanta: e non solo perché con la radiazione la vicenda di Rossanda nel Partito si esaurisce; ma soprattutto perché negli anni '60, in presenza di una ribellione studentesca straordinaria e di un imponente movimento di massa operaio, il Pci rinunciò (e fu per sempre) a tessere la tela che aveva cominciato: «Sono quegli anni che spiegano l'oggi. Non era semplice, ma non fu tentato nulla, pensato nulla, neanche un passo avanti in quell'ambito keynesiano dove pure Pci e Cgil erano cresciuti e che sarebbe stato anch'esso travolto». Fino allo sfacelo di oggi.
In un quadro così complesso Rossanda non si sottrae neanche all'arduo problema sul cosa, in politica, abbia significato per lei essere donna. Non certo una militanza femminista o pre-femminista: per lei, per le donne della sua generazione, l'attività politica ha significato essenzialmente lottare per essere riconosciute all'altezza dei dirigenti uomini, ed essere come loro. Tuttavia... Tuttavia - e Rossanda lo accenna più volte - non fu mai la stessa cosa: «Non sfuggivo al femminile... Quell'impulso di fuggire davanti alla decisione del fare o no il corteo proibito fu un avviso che non mi ha impedito di fare scelte drastiche, ma si ripete ogni volta che non sono in gioco io sola - sento uno scarto, un esitare, un ritirarmi... La materia di cui sono fatta ha questa grana. Combattiva ma seconda...».
Forse, più semplicemente, l'essere donna in politica ha significato per lei vivere, capire e soprattutto ricordare il lato umano delle cose, la ferita lancinante della perdita, la tenerezza degli affetti, più che la vanità infinita dei giochi di potere. Tutto questo - e molt'altro - fuso in una prosa lucida, fluente, appassionata, inarrestabile: una specie di canto sospeso, che a me ha ricordato certe composizioni lunghe e profonde, distese senza fine a mezz'aria, fra terra e cielo, di Luigi Nono. Scrive Rossanda nelle ultime tre righe del libro a proposito del lavoro da lei intrapreso presso le nuove generazioni studentesche e operaie dopo la radiazione dal Pci: «Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un' altra storia».
Neanche quello funzionò? Beh, sì, forse sì: ma quel canto, anche se la Storia non funziona, tutti possono intenderlo, e continua.


“la Repubblica”, 25 novembre 2005  

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