17.3.17

Viola Papetti e Giorgio Manganelli. Erotismo e angosce di un seduttore (Simonetta Fiori)

"Era difficile gestire il suo corpo e la sua mente. Il Manga era parlato da se stesso, una macchina linguistica divampante. Ed era un uomo emiliano ". Dopo tanti anni Viola Papetti rompe il silenzio sulla sua storia privata con Giorgio Manganelli. Per la prima volta rende pubbliche le formidabili lettere d'amore che lui le scrisse dal 1966 al 1973, insieme alle missive altrettanto belle che lei più tardi avrebbe indirizzato a Maria Corti, impegnata a raccogliere tutte le tracce dello scrittore.
Un inedito carteggio in forma indiretta che restituisce un legame sentimentale durato per tutta la vita, splendido e terribile (Lettere senza risposte , Nottetempo). Minuta, occhi ridenti, un'antica abitudine all'ironia come riparo dalla crudeltà del mondo. Viola è un'anglista di valore, una vita trascorsa sulle pagine di Hopkins e Sterne. E tra le braccia sfuggenti di uno dei più grandi affabulatori del Novecento (di cui ha curato gli scritti di anglistica).

Lei ritrae un Manganelli davvero inedito: molto carnale, erotico, passionale.
"Sì, in molti si stupivano del suo dongiovannismo, soprattutto le tante donne che lui prendeva e lasciava. Non l'hanno capito. Prevaleva l'immagine dell'orco solitario e un po' fiabesco, mentre il Manga era pur sempre un emiliano. La sua anima era una cosa diversa, spesso preda di tremende angosce".

Andò in analisi con Thomas Bernhard. Gliene parlava?
"Mai. Però ascoltavo le sue telefonate. Da Bernhard aveva appreso una tecnica psichica affinata che gli consentiva una lettura profonda di sé e degli altri. Coglieva il fuoco delle persone, così come da critico coglieva il nucleo mitico degli autori. E alle donne regalava dei ritratti meravigliosi".

Un grande seduttore.
"Unico. Sapeva suggerire con rara eleganza fantasie erotiche potenti. Era un maestro nell'infiammare un corpo opaco. Io aderivo alle sue suggestioni senza riserve".

Un rapporto anche doloroso.
"Sì, ma mai vile. Non c'erano sentimentalismi, solo passioni estreme. Giorgio diceva che avevamo due relazioni. La prima di amore, e le sue lettere lo dimostrano. La seconda di "necessità mentale", per lui e anche per me. Era sempre nella mia testa, anche quando ci lasciavamo. Lasciarsi era normale, come ritrovarsi. E i ritorni erano belli".

Quando cominciò la vostra storia?
"Ci eravamo incontrati nei primi anni Sessanta. Io poco più che trentenne, lui dieci anni di più. Prese a corteggiarmi ma io gli sfuggivo. Avevo paura delle relazioni stabili e amavo i miei libri. Ero strana, e lui paragonava la mia femminilità a un 'guanto spaiato'".

E questo naturalmente lo attraeva.
"Sovrapponeva la sua anomalia alla mia. Ci siamo dati la libertà per tutta la vita, una condizione che ci ha permesso di reggere fino alla fine".

Esisteva però una compagna ufficiale.
"Una madre autoritaria, anzi una matrigna che gli avrebbe fatto il torto peggiore: quella tomba a due piazze a Prima Porta. Il Manga poteva essere solo amante, mai marito o compagno di vita. Ma non voglio parlare della Ebe: potrebbe riaffiorare il mio rancore, e non mi piace".

Ma Ebe la chiamò quando lo scrittore morì.
"Sì, io mi precipitai subito a casa del Manga. Lei mi diede cinque minuti, poi via. Lui giaceva sul letto con il braccio rivolto a quella statua orribile che non aveva mai voluto spostare dal letto: un angelo gotico con la spada. Ma come si fa a fare l'amore sotto un angelo così brutto? Gliel'avevo detto tante volte, ma lui niente".

Lei aveva trascorso con Manganelli anche l'ultima domenica.
"Ero stata da lui nel pomeriggio e nella notte sarebbe morto. Dormivo a casa mia quando quella stessa notte sentii uno squillo, mi precipitai con l'impulso irrefrenabile con cui da sempre rispondevo alle sue telefonate. Manga era capace di sfuriate terribili se non sentiva subito la mia voce. Quella volta dall'altro capo del filo solo silenzio. Mi ha lasciato così, con un annuncio pudico e tremendo di quello che abbiamo sempre temuto: l'abbandono. Per evitarlo abbiamo pagato prezzi altissimi".

Soprattutto lei. Manganelli la rendeva complice di altre storie amorose.
"Mi parlava delle altre donne, spesso in modo grottesco. Il suo innamoramento cadeva quando le sentiva lagnarsi del loro avvenire. Penso che mi avesse collocato in una zona speciale: quella della non esistenza, e me l'aveva ripetuto più volte. E nella mia non esistenza mi sono pigramente adagiata. Non esistendo, ero al sicuro".

Lo ritrae come un bambino pericoloso.
"Non dava certezze su niente, ma per sé le chiedeva con abili sotterfugi. Mi sono perso nel bosco, mi diceva, sono solo e al buio: e tu cosa fai per me? Io reagivo in modo infantile e lui ridacchiava. La sua nudità psicologica si rivelava di colpo. Una volta temetti - e me ne vergogno - che mi volesse ammazzare. Eravamo al lago, da soli. Seduto sul letto, lui mi guardava e piangeva dalla tenerezza. Poi mi diceva: sai, gli assassini sono creature dolcissime. Pensai: beh, ci siamo".

Lei ha capito da cosa nasceva la sua straordinaria affabulazione?
"Era eccessivo in tutto: nella memoria prodigiosa, nelle letture sterminate, nella sessualità, anche nel mangiare. E nella sofferenza. La Kristeva mi ha fatto riflettere sul rapporto tra la parola e la figura materna e credo che la madre del Manga sia stata il suo "sole nero". Lui se ne lamentava sempre, dicendo che l'aveva calpestato".

Usava le parole anche per ferire?
"No, sempre grande rispetto. Semmai mi puniva con il silenzio. Ammutoliva per giorni. Non dava spiegazioni né le chiedeva".

Che cosa ha rappresentato Viola per Manganelli?
"Credo la giovinezza. Se te ne vai tu, se ne va la mia giovinezza, mi disse una volta. E io non volevo che invecchiasse".

E Manganelli per lei?
"Un compagno di giochi a cui devo molto".


“la Repubblica”, 12 febbraio 2015

Nessun commento:

statistiche