15.3.17

Divagazioni sull'arte gaddiana del divagare (Francesca Borrelli)

Carlo Emilio Gadda
Il lento risveglio dal letargo cui erano state consegnate le opere di Gadda coincise, più o meno, con le celebrazioni preparate per il decennale dalla morte. Alla Casa della cultura di Milano, nel dicembre dell'83, un convegno e una piccola mostra risvegliavano l'interesse del pubblico per quel gran lombardo attraente e respingente a un tempo, come lo sono coloro su cui grava un destino di inaccessibilità. O forse era una sorta di ipnosi quella da cui si andavano scuotendo non solo i lettori di Gadda, ma buona parte dell'editoria che, un po' scompostamente, si affannava a ramazzare minimi lasciti e epistolari, con il risultato di disperdere in luoghi eterogenei il mosaico degli scritti gaddiani che si andava componendo.
Un velo, per la verità, era già stato squarciato sul buio di comprensione in cui lo stesso Gadda si era avvolto, e era una di quelle aperture destinate a rimanere definitive: un libro di modesta mole titolato La disarmonia prestabilita era uscito da Einaudi nel '69 a firma di Gian Carlo Roscioni. A monte di quello studio, e a nutrimento di tutti quelli che lo seguirono, si era reso necessario risalire faticosamente le letture di Gadda, muovendosi tra i terreni della cultura scientifica e quelli della letteratura, sostando nella filosofia, affrontando le asperità del calcolo ingegneristico per capire la genesi di metafore altrimenti impossibili, tormentandosi sui vocabolari per rintracciare l'etimologia di parole che abitano zone remote della lingua, o suoi confini non prima praticati.
Ora, finalmente, tutta la tradizione a stampa delle opere gaddiane è filologicamente ricomposta insieme, negli splendidi volumi appena completati da Garzanti per la cura di Dante Isella; e certo non si potrebbe immaginare omaggio più gradito a un autore che pregava di «lasciarlo nell'ombra». Va pur detto, tuttavia, che Gadda non fu del tutto ignorato: dal lato del carattere egli venne, anzi, a più riprese ispezionato, e una volta per tutte consegnato alla solennità, nel libro-ritratto che gli dedicò Giulio Cattaneo. La diffidenza ispirata dallo scrittore cedeva allora il passo alla curiosità indotta dall'uomo, collerico e irriverente e poi subito abbandonato alla costernazione, timorato dalle conseguenze che avrebbero prodotto le scintille del suo umore.
Non solo quelle, per la verità, lo preoccupavano; perché pure si tormentava al confronto con le asperità che aveva disseminato nella sua scrittura; ma, a quelle, cercava giustificazione nella patente baroccaggine della vita, nella complessità irredimibile di tutto ciò che gli si parava innanzi, e che chiedeva sguardi incrociati da prospettive molteplici. Da lì veniva la sua parola satura di significazioni irriducibili a una sola allusione, la torsione della lingua che mimeticamente si piegava e si avvitava sul reale, cui doveva dare un nome: non sono trovate gratuite le memorabili locuzioni gaddiane, perché anzi l'invenzione è «respinta come peccato capitale del lavoro letterario», ci avverte Emilio Manzoni nella sua introduzione alla edizione critica della Cognizione del dolore; che ora, dunque - affidata a una chiosatura riservata solo alle grandi testimonianze letterarie - guarda dall'alto del suo statuto di anticlassico la grande letteratura europea del Novecento. E, tuttavia, la maggioranza dei lettori preferisce il Pasticciaccio, e la gran parte dei critici si sofferma sul pastiche linguistico del Gadda espressivista piuttosto che sul carattere di frammento lirico della sua prosa più alta.
Tutto sembra essere stato detto - su una via maestra aperta a suo tempo da Gianfranco Contini - a proposito della vulcanica attività mescidatoria che dà luogo alla lingua di Gadda; mentre, forse, qualcosa ci si potrebbe ancora attendere dalla penetrazione stilistica (non certo psicologica) dei suoi vertici di tragico lirismo. Persino il libro di cui offriamo una anticipazione in questa pagina, benché collezioni scritti dettati dall'urgenza e dalla prosaicità di qualche intervista, contiene echi dello speciale lessico gaddiano, denunce di ossessioni copiosamente riversate nell'ordito della sua narrativa, virulenze espressive che non possono che suonare di conforto a chi ha care le tonalità della prosa gaddiana. Del lessico famigliare della critica fanno parte, invece, una serie di luoghi che in quanto comuni hanno perso la loro valenza di rivelazione per approdare alla minaccia della banalità; ma non sono perciò meno veri. E' la stessa reiterazione dei motivi gaddiani a far girare e rigirare in un unico calderone le formule che magicamente dovrebbero svelare l'arcano della scrittura: basti il catalogo dei suoi impedimenti. Non c'è analisi della narrativa di Gadda che non si trovi nell'obbligo di denunciare le difficoltà di una trama che stenta a svolgersi, dal momento che infinite digressioni ne dilazionano l'esito; e non c'è modo di non interrogarsi sulla natura dell'incompiuto, perché quando ci si avvicina al gesto finale, quando l'intreccio sembra lì lì per esplodere nel climax, ecco che scatta l'impedimento psicologico: «Mi si polverizza la memoria» dice Gadda in una intervista dello stesso volume da cui è tratto lo scritto che qui pubblichiamo.
Non è tanto la memoria a dissolversi, quanto la possibilità di tradurla in fatto, di darle corpo; perché sembra che la fisicità della scrittura consegni alla fantasia una materialità già troppo insopportabile per reggerne il confronto. Cosi, il Pasticciaccio è pubblicato senza che si arrivi a svelare il nome dell'assassina, e la Cognizione viene data alle stampe priva di una conclusione, anche se di entrambi i libri sono state restituite, nel tempo, le stesure provvisorie dei capitoli cruciali. Ma è pur vero che, per molti, la lettura della prosa gaddiana si è arrestata indipendentemente dalla frustrazione dell'incompiuto, poiché ben più precocemente compaiono, disseminate nella trama, le difficoltà da affrontare.
E non è solo questione di intreccio: dai disegni milanesi dell'Adalgisa, ai racconti degli Accoppiamenti giudiziosi, dalla Meccanica privata anch'essa dei suoi capitoli finali (per la prima volta reintegrati nell'edizione a cura di Isella) ai saggi delle Meraviglie d'Italia e di I viaggi la morte, dalla filosofica Meditazione milanese ai primi abbozzi del Racconto italiano di ignoto del novecento, tutto il percorso della scrittura gaddiana è una lunga, infinita divagazione, dove i personaggi - o Gadda per loro - sono impegnati non tanto in una azione, quanto in una battaglia mentale.
Scontri di posizioni, conflitti di idee, prospettive che non si rassegnano alla parzialità, «figurazioni non valide»: tutto questo muove i protagonisti della antinarrativa gaddiana, votata piuttosto al dibattito filosofico: come ha scritto Emilio Manzotti, quella che abbiamo di fronte è una «scrittura della intelligenza», variante scarsamente afferrabile dell'espressionismo linguistico di cui Gadda è un unicum: ora, a cento anni dalla nascita, e probabilmente per il resto del tempo a venire.


“il manifesto”, 12 novembre 1993

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