26.3.17

Baj per Pinelli. Quel quadro che Milano non può vedere (Rinaldo Gianola)

In campagna elettorale se ne sentono di tutti i colori. A Milano tra i candidati sindaci c’è chi vuole riaprire i Navigli, chi punta a far viaggiare i cittadini gratis sui mezzi pubblici, chi promette il reddito minimo garantito e chi assicura il blocco della cementificazione proprio mentre in città spuntano grattacieli e complessi residenziali. Gli anarchici del circolo Ponte della Ghisolfa non hanno grandi richieste, vorrebbero solo che si trovasse uno spazio per esporre un’opera d’arte.
Un gesto semplice, ma che ha un valore importante per la memoria dei milanesi. I funerali dell’anarchico Pinelli è, infatti, il quadro che non si può vedere. È una creazione di Enrico Baj che non trova pace, non ha un luogo dove restare e mostrarsi, viene mantenuta lontano dagli sguardi dei cittadini, a volte compare per un breve periodo e poi ripiomba nel buio. Una storia che pare non avere fine, così come tutte le vicende che iniziano con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ma che potrebbe anche arrivare a una conclusione con un po’ di buon senso e di volontà: una città capace di ospitare venti milioni di visitatori dell’Expo può anche trovare un luogo pubblico per ospitare un’opera d’arte dedicata a un ferroviere anarchico morto quarantasette anni fa.
«Abbiamo raccolto migliaia di firme, abbiamo ricevuto sostegno da parte di molti, non vogliamo polemizzare con nessuno, semplicemente chiediamo un luogo dove esporre quest’opera che ha un importante valore artistico, anche sentimentale, e richiama grande interesse», spiega Mauro De Cortes, anarchico del vecchio circolo milanese. La questione è complessa, anche se l’esposizione di un quadro sembra una cosa abbastanza semplice nell’epoca dell’aspirazione alla memoria condivisa. Il prefetto Alessandro Marangoni, appena arrivato in città, promette di recuperare «il rapporto con la famiglia Pinelli», ha avuto un contatto con la signora Licia Rognini Pinelli, ma non si capisce dove vuole o può arrivare: ricordare il ferroviere con una lapide dentro le mura della Questura dove è morto, svelare un’altra verità dopo quella ufficiale del malore con «alterazione del centro di equilibrio» senza «perdita del tono muscolare» e con «movimenti attivi e scoordinati»?
Intanto Milano attende anche la versione del libro postumo di Antonino Allegra, ex capo dell’Ufficio Politico della Questura al tempo della strage, che in vita non ha mai pronunciato una parola su quei giorni tremendi perché, diceva, «sono un funzionario dello Stato e devo mantenere il segreto». Qui però non si tratta di riscrivere la storia, ma di dare visibilità a un quadro di grande significato, rispettando l’idea dell’autore.
Dario Fo, che scrisse e portò in scena Morte accidentale di un anarchico già nel 1970 raccogliendo carrettate di denunce e polemiche, ha un ricordo affettuoso di Baj: «L’essere vivo, vitale era il più evidente dei suoi pregi, l’intensità dell’essere, lo sghignazzo provocatorio, il riso pulito e commosso, l’ironia sarcastica, la determinatezza dell’impegno».
L’opera ha bisogno di spazio. Si tratta, infatti, di una composizione modulare, formata da 12 pannelli smontabili, con una dimensione di tre metri per dodici. Le figure sono ritagliate su sagome di legno e assemblate con la tecnica del collage, tipica dell’artista milanese. Il centro della scena è occupata dall’urlo della morte del ferroviere, a sinistra assistono alla tragedia undici anarchici e le due figlie Claudia e Silvia Pinelli. La moglie Licia è in un angolo, a destra, in ginocchio, sconvolta dal dolore. Davanti a lei sette poliziotti, con le medaglie sul petto e rotelle al posto degli occhi. Il riferimento più diretto dell’opera è a Guernica di Picasso, il secondo è un omaggio al futurismo di Carrà de I funerali dell’anarchico Galli (1911). Baj aveva racchiuso nel suo lavoro il dolore, la paura, la tensione di quegli anni, la commozione dei funerali di Pino Pinelli, caduto da una finestra della Questura in via Fatebenefratelli dov’era trattenuto illegalmente.
Passarono molti anni prima che emergesse almeno una verità: Pinelli non c’entrava niente con la bomba, gli anarchici erano estranei all’attentato. I funerali del ferroviere al cimitero di Musocco del 20 dicembre 1969, a cui si ispira Baj, restano una pagina dolorosa nella memoria della città. Gli anarchici, i militanti che sentivano forte la minaccia di un nuovo terrorismo si strinsero attorno a Licia Pinelli e alle figlie.
Nel libro Una storia quasi soltanto mia, scritto con Piero Scaranucci, la signora Pinelli ricorda: «Sgridavo mia mamma perché aveva cominciato a piangere. Lo sforzo di non lasciar trapelare i sentimenti. Per non dargli la soddisfazione. È tanto più facile dimostrare i sentimenti. C’era tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. Io mi ricordo di me stessa davanti alla fossa. Ho consegnato la bandiera nera da mettere sulla bara, ma ricordo soprattutto questa atmosfera pervasa di tragedia che aveva preso tutti».
Alcuni giornalisti – Camilla Cederna, Marco Nozza, Giampaolo Pansa – compresero e raccontarono subito quell’ombra nera, di violenza e intrighi, che avvolgeva il Paese. Franco Fortini, presente ai funerali con Vittorio Sereni e Giovanni Raboni, scrisse parole dolorose: «Il gelo del cimitero, la pietà dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa ingiusta, la sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia che si chiude, di un triste futuro di persecuzione e di silenzi».
Il battesimo dell’opera di Baj era previsto il 17 maggio 1972 a Palazzo Reale. La presentazione fu annullata perché al mattino dello stesso giorno in via Cherubini a Milano era stato assassinato il commissario Luigi Calabresi, che aveva partecipato alle prime indagini sulla strage di piazza Fontana. Per quell’omicidio molti anni dopo furono condannati tre ex militanti di Lotta Continua.
L’opera di Baj finì nel dimenticatoio, nessuno ne parlò più in Italia mentre, negli anni successivi, raccolse interesse e attenzione all’estero: Rotterdam, Stoccolma, Dusseldorf, Ginevra, Miami, Locarno. Nel 2003 fece un’apparizione all’Accademia di Brera. Baj, nel frattempo, aveva regalato l’installazione a Licia Pinelli, che però non poteva custodirla nel suo piccolo appartamento. I funerali dell’anarchico Pinelli finirono così alla Fondazione Marconi. Dopo ben quarant’anni, nell’estate del 2012, il Comune di Milano decise di mostrare l’opera di Baj alla città, nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale. Il sindaco Giuliano Pisapia, il quale promosse l’iniziativa con l’ex assessore alla Cultura Stefano Boeri, commentò che «l’arte, quella vera, non minaccia nessuno: quello di Baj fu anzitutto l’omaggio al dolore di Licia, Claudia, Silvia, allo sgomento degli anarchici milanesi, del tutto alieni a ogni idea di violenza, ad ogni sopruso, ad ogni negazione della libertà dell’uomo». Passata l’estate del 2012, però, l’installazione di Baj è stata smontata ed è tornata nel magazzino della fondazione.
Giorgio Marconi, 86 anni, gallerista e collezionista, è il proprietario de I funerali dell’anarchico Pinelli e si sta battendo perché si trovi uno spazio pubblico adeguato. «Sono sempre disposto a donare l’opera alla città», racconta, «perché non ha solo un importante valore artistico, rappresenta una pagina della storia di Milano. Voglio donarla a condizione che sia esposta in uno spazio fruibile a tutti. Ci sono molte aree vuote, saloni, musei che potrebbero essere utilizzati, mi hanno anche convocato all’assessorato alla Cultura assicurandomi che avrebbero trovato una soluzione, ma non viene mai presa una decisione». Aggiunge Marconi, erede del più famoso corniciaio di Milano: «Ho visto nascere l’opera, Baj ci teneva tanto e aveva addirittura affittato un appartamento solo per crearla. Tagliava, dipingeva i pezzi di legno e poi li assemblava con il suo stile. Mi chiese di comprare l’installazione e il ricavato venne donato alle figlie di Pinelli. Ho ricevuto offerte dalla Germania e dalla Francia, ma non ho mai voluto venderla perché deve restare a Milano».
Adesso ripartirà la raccolta di firme, la mobilitazione, la richiesta di uno spazio in città, che si potrebbe trovare considerato il numero e la vivacità di musei, gallerie, fondazioni. Il circolo Ponte della Ghisolfa vuole proiettare l’immagine dell’opera di Baj sulla facciata di Palazzo Marino per ricordare a tutti la vicenda del quadro invisibile. Forse la campagna di confronto politico per l’elezione del sindaco potrebbe consentire di scegliere il destino di quest’opera senza pregiudizi e polemiche. Ma è meglio non alimentare speranze, ci sarà ancora da aspettare, cosa non facile quando si parla di piazza Fontana, della lunga serie di lutti e tragedie che parte da quei lontani giorni di dicembre.
Qualche anno fa fu rubata la seconda lapide che gli anarchici avevano collocato a ricordo di Pinelli nei giardini di fronte alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove esplose la bomba. L’hanno sostituita con la prima, ancora più vecchia, che ormai non resiste più all’usura del tempo. Così ne hanno ordinata un’altra. Tra pochi giorni da Carrara, terra di marmi e di libertari dove riposa Pino Pinelli, ne arriverà una nuova di zecca. Verrà posata in piazza Fontana per durare altri decenni.

PROFILO DI ENRICO BAJ
Nel luglio 2003, all’indomani della morte di Enrico Baj, Christopher Maters notò sul “Guardian” che i quadri e i collage figurativi dell’artista milanese «non sono immediatamente evocativi come i monocromi di Yves Klein o le tele tagliate di Lucio Fontana... ma le sue immagini vivide, spesso angosciose, hanno rappresentato una sfida costante alle ortodossie artistiche e politiche». Ne sono esempi i Generali fatti di bottoni o i Meccani ispirati all’Ubu re di Alfred Jarry o ancora, sulla scia della Guernica di Picasso, oltre ai Funerali dell’anarchico Pinelli, la grottesca Nixon Parade (1974). E Baj fu anche autore di libri, che portano (ovviamente) titoli provocatori. Come Automitobiografia o (con Paul Virilio) Discorso sull’orrore dell’arte.


Pagina 99 we, 5 marzo 2016

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