27.3.17

Sindacalismo italiano. Bruno Buozzi, operaio modello (Valerio Castronovo)

Era entrato in fabbrica dalle sue parti, nel ferrarese, quando aveva appena quattordici anni; ed era poi sbarcato a Milano nel 1896 un po' più grandicello, per andare a lavorare alla Marelli. Questa dura esperienza di "bambino-operaio" e la tenace ostinazione con cui, da buon autodidatta, riuscì a prendersi un diploma alle scuole serali per diventare un insegnante ai corsi tecnico-professionali, segnarono profondamente l'identità e gli ideali politici di Bruno Buozzi.
Scriverà Fernando Santi: "Nella schiera degli organizzatori sindacali di prima del fascismo, Buozzi è indubbiamente quello che più di ogni altro rappresenta l'operaio italiano dei primi del secolo: l'operaio metallurgico, intelligente, umano, orgoglioso della sua dignità professionale, che sta a testa alta davanti al padrone, rispettato e rispettoso; che legge L'origine delle specie e frequenta l'Università popolare e i loggioni della stagione lirica; che ammira la tecnica tedesca e odia il kaiser; che ama i nichilisti russi e vota per Turati".
Il nome di Buozzi si identifica con i primi sviluppi del sindacalismo industriale nell'età giolittiana, con il rafforzamento delle Camere del lavoro e la nascita delle federazioni di mestiere. Uno di questi sodalizi, quello dei lavoratori metallurgici, la Fiom, che egli guidò per diciassette anni (dal 1909 al 1926), si affermò fin da allora come l'avanguardia del movimento operaio italiano. Le più importanti conquiste sindacali di quel periodo - dal contratto collettivo all'istituzione delle commissioni interne, all' orario di lavoro di otto ore - recano la sua firma. Segretario generale della Confederazione generale del lavoro dal gennaio 1926, durante l'estrema resistenza contro il fascismo, attivo animatore degli esuli parigini, compagno di lotta dei repubblicani spagnoli, Buozzi finì assassinato alla Storta dai tedeschi in ritirata, il 4 giugno 1944 (il giorno stesso della liberazione di Roma), dopo aver conosciuto il confino politico nell'ultimo scorcio della dittatura mussoliniana e la famigerata prigione nazista di via Tasso.
Sulla vicenda umana e politica di quest'uomo, che per il suo grande coraggio, la sua coerenza intellettuale e la sua assoluta dedizione alla causa del proletariato, ha rappresentato una delle figure più esemplari del socialismo italiano, è comparsa ora una rievocazione biografica La forza tranquilla, Franco Angeli, che ripercorre l' itinerario di Buozzi sulla scorta di parecchi documenti inediti e di varie testimonianze. L'autore, Aldo Forbice, giornalista e saggista politico, si chiede quale sarebbe potuta essere nel secondo dopoguerra la strategia del sindacalismo italiano se la vita di Buozzi (che sembrava destinato, quale artefice del "Patto di Roma", a dirigere la Cgl unitaria) non fosse stata stroncata improvvisamente in seguito a una serie di circostanze inquietanti che non sono mai state del tutto chiarite.
In effetti Buozzi, che univa alle sue doti di organizzatore sindacale d'istinto e pragmatico una formazione politica e culturale sorretta da profonde convinzioni riformiste, aveva intuito fin dalle sue prime esperienze che compito fondamentale del sindacato fosse di creare anche in Italia le condizioni per lo sviluppo di una moderna democrazia industriale. Perciò egli continuò a sostenere, in tutte le sedi, sia il principio della piena autonomia del sindacato, senza alcuna subordinazione ai partiti, sia l'esigenza di un'azione sindacale che avrebbe dovuto eleggere come suoi obiettivi principali la crescita dell'occupazione, la valorizzazione della professionalità, la partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori alla gestione aziendale e alle trasformazioni tecnologiche.
Sulla base di questi intendimenti Buozzi fu avversario tanto del sindacalismo rivoluzionario quanto del massimalismo. Ma neppure durante le più dure polemiche che costellarono anche il periodo dell'esilio, egli perse di vista il principio dell'unità sindacale dei lavoratori. Nel 1921 aveva tentato di esorcizzare i contrasti insorti all'interno della classe operaia dopo la scissione comunista di Livorno, temendo giustamente che essi avrebbero favorito l'avanzata del fascismo; fu poi lui, nel 1936, a ricucire con Di Vittorio un programma comune di lotta contro il regime; e successivamente, dopo il 25 luglio 1943 (quando alcuni lo avrebbero voluto a capo di un governo antifascista di unità nazionale), a gettare le basi di un'intesa anche con i cattolici per la ricostruzione di un sindacalismo libero e democratico.


“la Repubblica”,1 marzo 1985  

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