26.3.17

Un banchiere piccolo piccolo (Antonio Vanuzzo)

LONDRA
«È il principio della rana bollita. Dopo la crisi finanziaria le banche d’affari si sono scottate, e sono corse ai ripari velocemente. Oggi, la temperatura si sta invece alzando lentamente ma costantemente. Chi non è in grado di adattarsi finirà bollito senza accorgersene». Non ha dubbi il nostro interlocutore, partner di una delle “Big 4” della revisione contabile, dal suo studio affacciato su Tower Bridge. Le grandi banche d’affari si sono già scottate, e qualcuna rischia grosso. Le contromisure, stavolta, cambiano la faccia del business dell’élite finanziaria globale, che guarda anche al piccolo cabotaggio dei conti correnti. E al modello delle utilities, facendosi società di servizi.
Gli dei cadono ancora. I conti del primo trimestre dell’anno sono impietosi: a Wall Street come nella City le banche d’affari sono in perdita. Non si salva nessuno. Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Lloyds, Barclays, Royal Bank of Scotland, Standard Chartered, Deutsche Bank hanno deluso le aspettative di analisti e investitori.
Tassi d’interesse negativi, calo del prezzo del petrolio, rallentamento della crescita globale, rischio Brexit, disinflazione, declino delle attività d’investimento, multe miliardarie per la manipolazione del tasso Libor o per aver favorito l’evasione fiscale. Eppure, dietro a fattori contingenti c’è una trasformazione profonda dell’industria bancaria, spinta da regole sempre più stringenti. La posta in gioco è sia finanziaria – dare più stabilità al sistema – che politica: i cittadini non dovranno più pagare per gli errori dei banchieri.
Per rendere l’idea, l’utile di Goldman nello scorso marzo è sceso a 1,4 miliardi di dollari: meno 60% rispetto a marzo 2015. Nello stesso periodo, Morgan Stanley ha riportato una contrazione del 54%, fermandosi a 1,1 miliardi di dollari. Gli utili di Citigroup sono invece diminuiti a 3,5 miliardi di dollari, meno 27%. A Londra Barclays e Standard Chartered hanno registrato utili pari a 793 milioni di sterline e 589 milioni di dollari, un crollo rispettivamente del 25% e del 59% sul marzo 2015.
Anat Admati, professoressa di Finanza a Stanford e autrice, con Martin Hellwig, di un libro al vetriolo sugli eccessi delle banche (The Bankers’ New Clothes: What’s Wrong with Banking and What to Do About It, Princeton, 2013), ironizzava su Twitter sull’ex capo di Barclays Bob Diamond, interessato a rilevare le attività della banca inglese in Africa, ma non certo la sua divisione d’investimento, da lui stesso creata.
Insomma, dopo anni di dividendi magri o sospesi, frequenti tracolli borsistici, continui aumenti di capitale, la domanda che trader e manager di fondi d’investimento hanno iniziato a porsi è semplice : «Le banche in generale torneranno mai ad essere profittevoli?».
«Non possiamo controllare l’ambiente macroeconomico in cui operiamo», ha detto il direttore finanziario di Goldman Sachs Harvey Schwartz nel corso della conference call sui risultati del primo trimestre. Tradotto: i tassi bassi – tra lo 0,25% e lo 0,5% negli Usa – non dipendono da noi.

Per un dollaro in più
Che fare? Goldman è corsa ai ripari lanciando un conto deposito on line riservato ai piccoli risparmiatori, che rende l’1% ed è accessibile depositando solo un dollaro. Una mossa senza precedenti che ha suscitato le ironie dell’Economist. Una svolta epocale per «il gold standard bancario dell’élite globale», stando alla definizione di Fortune. Non solo. Secondo Reuters, Goldman starebbe inoltre lavorando in partnership con asset manager e broker per prestare soldi ai loro clienti. L’obiettivo, insomma, è fare volumi. Roba tradizionale, niente innovazione finanziaria né prodotti oscuri e illiquidi.
Nell’eurozona la pressione macroeconomica è ancora più evidente. Nonostante i tassi negativi, scesi a meno 0,4% sui depositi presso la Bce, l’istituto di Francoforte è lontano dal raggiungere l’obiettivo dell’inflazione vicina al 2%. Anzi, a fine aprile i prezzi segnavano un meno 0,2% sul marzo scorso.

In teoria, più prestiti e mutui concedono, e più le banche macinano utili. Se però il rubinetto del credito gratis è aperto per tutti, la pressione competitiva riduce l’effetto-bilanciamento della liquidità fornita dalla Bce. Un bene per i consumatori, che possono accendere un mutuo a un attraente tasso dell’1%. Un male per gli istituti, perché su quel mutuo non ci guadagnano.
Da un lato, dunque, è difficile recuperare margini prestando a famiglie e imprese se i tassi sono negativi. Dall’altro, è diventato più complicato fare soldi facili tramite investimenti su strumenti rischiosi e opachi. Ad esempio, da luglio 2015 negli Usa è in vigore la Volcker Rule, che prende il nome dall’ex presidente della Federal Reserve, e prevede il divieto per le banche di utilizzare i propri fondi, risparmi dei clienti compresi, per investire in attività come i derivati.
In Europa, l’accordo “Basilea III” e l’unione bancaria si basano su due principi, atti a circoscrivere l’effetto contagio di un default come quello di Lehman Brothers. Primo: alle banche serve un livello di capitale adeguato in caso di shock esogeni. Secondo: se una banca è a rischio fallimento, va sistemata utilizzando i mezzi propri - obbligazioni subordinate, azioni - e non le risorse della collettività (è questo il famoso bail-in).

E io cambio business
Risultato: banche più solide, ma meno redditizie. Un contesto nel quale si fa strada l’idea di una trasformazione del modello di business delle banche. «Il quadro formato dai regolatori internazionali prevede che le banche diventino simili alle utilities: dividendi prevedibili, e bassi rischi», spiega a pagina99 un analista presso una banca d’affari giapponese. Tuttavia la trasformazione degli istituti in erogatori di servizi di pubblica utilità non è così facile: «fornire acqua o elettricità è un business molto più semplice e meno influenzabile da fattori esogeni, a meno di una guerra», aggiunge il nostro analista.
«Nelle utilities regolate è l’authority che decide quanto capitale devi investire e quanto puoi guadagnare, in modo da bilanciare i bisogni degli azionisti con quelli dei consumatori. Nel settore bancario, invece, hanno deciso quanto capitale è necessario per salvaguardare il sistema, salvo ogni tanto ripensarci e alzare di continuo l’asticella. In compenso, i regolatori si sono dimenticati di dirci quanto – e come – le banche devono guadagnare. Non può funzionare», osserva cinico il gestore di un fondo d’investimento specializzato in banche, durante un pranzo nell’elegante quartiere di Mayfair.
Un esempio del modello “banca come utility” è Santander Uk. La filiale inglese del colosso iberico si è concentrata sui settori tradizionali, assai poco sexy ma con dividendi e crescita prevedibili e a rischi bassi. Con offerte davvero competitive: ad esempio, sul conto corrente ti danno il 2% di cashback se fai debiti diretti per pagare bollette e metropolitana. Risultato: nell’ultimo triennio non è mai scesa sotto il miliardo di sterline di utili, arrivando a 1,6 miliardi nel 2015 (+60% sul 2014). Nel primo trimestre 2016 ha registrato profitti pari a 349 milioni di sterline, come a marzo 2015.
Per le banche internazionali, invece, il valore sarà incentrato sui transaction services. «Ad esempio, la Coca Cola in Polonia deve pagare gli stipendi in valuta locale, e avrà sempre bisogno di una banca in grado di ottimizzarne la tesoreria», spiega ancora l’analista. Per chi ha già un brand riconosciuto, la gestione di patrimoni rimane profittevole. «Tuttavia, servono enormi masse per godere di significative commissioni di gestione. Ubs ha duemila miliardi di dollari in gestione e 150 anni di storia. Difficile competere quando le barriere in entrata sono così elevate», continua.
Su scala nazionale, l’esempio è l’inglese Atom Bank, appena lanciata sul mercato dopo che la spagnola Bbva ne ha acquisito il 30% lo scorso novembre. «È una banca che funziona solo tramite app. I costi di gestione sono ridotti – 160 impiegati, zero sportelli – e i profitti derivano dalle fees più basse dei concorrenti su mutui e prestiti. La sede è a Durham, nel Nord Est del Paese, lontano da Londra». Tecnologia nuova, business tradizionale, poco personale.

Meno pirati, più ragionieri
Di questi tempi, i banchieri d’affari sono precari. Pirati negli anni ’90, oggi ragionieri. Tagli al personale, dieta ai bonus –salvo eccezioni, soprattutto nel top management a Wall Street –, chiusura di trading desk su derivati, tassi, materie prime. Sono solo alcune delle contromisure che gli istituti di credito hanno intrapreso per provare ad assicurare adeguati ritorni ai propri azionisti. I numeri fanno impressione: Credit Suisse ha annunciato l’uscita di quattromila persone, Hsbc di duemila, Barclays sui 1.200. Da noi, Unicredit ha deliberato il taglio di 18 mila lavoratori entro il 2019.
«Oggi le banche non sono incentivate ad assumere, per conto dei propri clienti, posizioni di acquisto o vendita su strumenti rischiosi. Ciò significa che un compratore potrà scambiarli se nello stesso momento dall’altra parte c’è un venditore. E che i nuovi banchieri sono asset manager: investitori di lungo periodo», osserva l’analista.
«Quando arrivai a Londra, nel 2004, riuscivo a guadagnare un bonus di 50 mila sterline l’anno. Meno male che ho comprato casa allora, perché oggi quelle cifre sono inimmaginabili. In più, per metà il bonus è rappresentato da azioni delle banche stesse non redimibili nel breve periodo. Sai che affare», ironizza un banchiere di una primaria banca internazionale.
«A inizio anni ’90 sbarcò a Londra un’infornata di banchieri italiani che fece furbescamente da tramite tra capitali anglosassoni in cerca di rendimento e un mercato borsistico agli albori. Hanno tutti la Ferrari e casa a Holland Park. Oggi quei tempi sono finiti. Può succedere solo se lavori per un hedge fund e azzecchi un trade difficile quanto prevedere che il Leicester avrebbe vinto il campionato», chiosa un osservatore di lungo corso della City.
È finito il tempo dell’espansione, guidata da pirati come lo scozzese Fred Goodwin, amministratore delegato di Rbs dal 2001 al 2009 quando divenne la quinta banca al mondo, o Adam Applegarth, capo di Northern Rock, la prima banca britannica a fallire nel 2008, e prima a concedere mutui pari all’intero valore di un immobile. Segno dei tempi, a Standard Chartered è arrivato Bill Winters, ex responsabile delle attività d’investimento di Jp Morgan. A guidare Deutsche Bank c’è invece John Cyran, ex direttore finanziario di Ubs. Uomini dei numeri, con un chiaro mandato: ristrutturare il business.
In Italia, viene in mente Giovanni Bazoli, il padre di Intesa Sanpaolo che in una celeberrima intervista al Financial Times rivendicava il ruolo benefico della “finanza di relazione”.


Pagina 99, 7 maggio 2016

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